Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
“Guardandosi intorno / il falcone non può percepire il falconiere; / Il mondo crolla; il centro non resiste”.
Con questa immagine evangelica, nel lontano 1919 il poeta irlandese W. B. Yeats esprimeva la sua preoccupazione nei confronti della devastazione della Prima Guerra Mondiale.
La stessa preoccupazione che, 40 anni dopo, dava il titolo a quello che sarebbe diventato uno dei pilastri della letteratura africana del XX secolo: Things Fall Apart dello scrittore nigeriano Chinua Achebe. In questo racconto, che ha oggi in Africa il valore scolastico di un Dante, Achebe dipinge una chiara immagine del sovvertimento dei valori spirituali e sociali della Nigeria determinato dalla funesta colonizzazione britannica. Per la prima volta, nel 1958, la tragedia coloniale non passa più dalla bocca dei bianchi, ma viene raccontata da chi fino a quel momento aveva dovuto tenerla ben chiusa mentre si vedeva privare della propria identità.
Altri 40 anni dopo, a Philadelphia, succede qualcosa di simile: The Roots decidono di schierarsi definitivamente con la scuola del conscious rap, affinché le piaghe sociali della comunità nera non passino più solo dalle bocche patinate e dalle lyrics nude e crude dei grossi rapper di strada, ma anche da quelle di chi fino a quel momento aveva sofferto tragedie diverse dalle sparatorie di strada, ma ugualmente meritevoli di attenzione. È così che, contrariamente alle aspettative della loro fanbase, nel 1999 i The Roots tornano sulla scena con Things Fall Apart.
“Come abbiamo fatto a vincere un Grammy non lo saprò mai, è uno dei più grandi misteri della vita” ha detto Questlove in merito alla risposta positiva ricevuta dall’album. Di certo, dopo l’uscita di capolavori come The Miseducation of Lauryn Hill e Aquemini degli Outkast, i tempi erano maturi per portare avanti la scia di una critica sociale che avesse una voce autonoma rispetto al Gangsta Rap. In un momento in cui i tabloid sono intasati dall’euforia per un 2000 all’insegna dell’ipertecnologia e della digitalizzazione, The Roots alzano la mano tra la folla per ricordare che nessuna connessione a internet potrà risolvere i problemi della comunità afroamericana, men che meno quelli del terzo mondo. E in questo senso risulta eloquente la scelta (antesignana di qualsiasi Tyler, The Creator) di proporre ben sei copertine diverse, a richiamo delle priorità dell’agenda globale tutte ancora da risolvere.
Pezzi come “You Got Me“, originariamente scritto da Jill Scott e poi consegnato nelle mani di Erykah Badu, dimostrano che ci si può preoccupare per la propria donna anche lontano dalle risse dei club. Che si può grandemente omaggiare il boom bap e far dondolare le teste anche riproducendo i samples in strumentale, senza bisogno di campionarli. E che rischiare in tutto e per tutto la fanbase old school costruita con Illadelph Halflife era un piccolo passo per i The Roots, ma un grande passo per l’umanità.
Il fatto che senza Things Fall Apart non sarebbe esistita la cascata di diamanti firmata Soulquarians, insieme alla più rilevante e raccapricciante sensazione di contemporaneità che si prova ad osservare le cinque copertine, ci fa pensare che la denuncia firmata The Roots 1999 è un riferimento musicale e culturale che non invecchierà mai.