Quando pensavamo che sarebbero passati millenni prima di riavere un lavoro all’altezza di A Seat At The Table, il 26 febbraio 2019 Solange tornava a farsi sentire con alcuni indizi che avrebbero portato, 3 giorni dopo, all’uscita della sua personalissima ode a Houston, Texas: When I Get Home.
L’uscita del disco era stata anticipata da Solange quando, su Twitter, ci avvisava di aver aperto una pagina su Black Planet, un social network pensato principalmente per connettere la comunità afroamericana. Lì, senza spiegare troppo, aveva pubblicato una serie di gif che la ritraevano nel bel mezzo di un set. Avevamo già conosciuto la sua stylist taiwanese-vietnamita Kyle Luu quando aveva curato il look di Solange ai MET Gala del 2017, e nelle immagini pubblicate da Solange lo styling futuristico, ma in qualche modo sempre ispirato al costume texano, suggeriva la sua partecipazione a qualcosa di grosso.
Con When I Get Home, Solange ci ha messo di fronte al fatto che, quando pensiamo di sapere quale sia il lavoro più significativo per un artista, spesso non è quello che ci aspettiamo. Infatti, la caratura di A Seat At The Table e ciò che ha rappresentato in termini di rinascita per Solange come artista concettuale oltre che musicale, ci avrebbe completamente fuorviato se non fosse stato per un post Instagram pubblicato dall’artista in occasione del secondo anniversario del disco, in cui raccontava: “Quando ho cominciato a lavorare a When I Get Home stavo praticamente lottando per la mia vita… via vai dagli ospedali, con una salute compromessa e lo spirito a terra, chiedevo a Dio di mandarmi un segnale, ma se mi avesse permesso di restare viva sarei entrata nella [sua] luce, qualsiasi cosa questo volesse dire. Così ha cominciato a parlarmi”.
“Il progetto che mi ha letteralmente cambiato la vita”, così lo ha definito. Un progetto in cui, per usare le sue stesse parole, Solange ha preferito lasciare respiro a ciò che sentiva, piuttosto che a ciò che sentiva di dover dire. E in questo ritorno a casa non c’è spazio per troppa introspezione: le vibes cosmiche fanno la riverenza alla tradizione di Houston e dominano la scena, impreziosita dall’intervento di producer di punta, alcuni legati a Solange da un rapporto di profonda amicizia, come nel caso di Tyler, The Creator, Earl Sweatshirt, Sampha e Pharrell. A coronare il tutto, il film omonimo diretto da lei e dal marito Alan Ferguson serve un videoclip a tutte e 19 le tracce del disco, rimarcando l’identità di un concept album che ruota intorno “all’esplorazione delle origini”.
Sebbene WIGH rimanga un lavoro con delle aspirazioni totalmente diverse da quelle del disco che lo ha preceduto, non c’è mai troppa leggerezza nella mano creativa di Solange che, come affermato dal suo team in uno statement ufficiale, ha strutturato l’intero progetto intorno a una domanda: “Quanto di noi siamo disposti a portare e quanto ad abbandonare nel nostro processo di evoluzione”?