All’inizio di Sherane, traccia di apertura del secondo album di Kendrick Lamar, good kid, m.A.A.d city, si sente qualcosa di strano: una videocassetta entra in un mangianastri e va in riproduzione. Un gruppo di persone comincia a pregare.
I receive Jesus to take control of my life / And that I may live for him from this day forth.
La copertina del disco, nella calligrafia di Schoolboy Q, recitava: “A short film by Kendrick Lamar”. Quel film, fatto di racconti così intimi e personali (dalla prima cotta raccontata in Sherane ai suoi idoli adolescenziali descritti in Black Boy Fly) in realtà non è mai finito, e ha viaggiato attraverso la teatralità di u in To Pimp A Butterfly e l’assurdità di storie come Duckworth in DAMN. per planare finalmente su un nuovo capitolo in due atti: Mr. Morale & The Big Steppers, uscito il 13 maggio per Top Dawg Entertainment.
A partire dalla copertina, sapientemente scattata dalla fotografa americana dominicana Renell Medrano, Kendrick non lascia spazio ad alcun dubbio: è lì, ritratto con la sua sacra famiglia, nell’atto di vivere, per usare le parole di Anthony Fantano, un vero e proprio “complesso del salvatore”.
“I am. All of us.” dichiarava poco prima di tornare al mondo con The Heart Part 5: come il messia, Kendrick è tutti noi, è l’Uomo. La storia che sta vivendo è solo sua, ma è universale, così come accade nelle migliori pellicole cinematografiche.
Provare a parafrasare e commentare gli avvenimenti raccontati nella cornice di questo doppio album non farebbe altro che viziarli, sporcarli di pochezza. Quel che si può dire è che la qualità e la complessità del blending tra lyrics e produzioni ci costringe a fruire del disco come un film o un libro. Certo, mai in nessun disco Kendrick ha mancato di raccontare delle storie. Durante un’intervista sulla narrazione di To Pimp A Butterfly e sulla distanza delle sue lyrics da quelle di tanti average rappers, Kenny aveva detto: “[venendo da Compton] avrei potuto benissimo alzarmi e dire ‘ho fatto questo, ho visto quello, ho ucciso quell’altro…’. Avrei potuto solo raccontare i fatti del mio quartiere. Ma quello non sono io. Io preferisco parlare della ‘mia’ realtà, capito? Preferisco parlare di qualcosa di più profondo, delle ragioni e dei problemi e delle soluzioni. Così quando senti quelle storie in good kid, m.A.A.d city, in To Pimp A Butterfly, è qualcosa di più di semplice musica”.
Chi cercava un album da macinare giorno e notte (forse tutti noi), sarà rimasto spiazzato da un disco così denso e complesso da riascoltare, percependo forse quello stesso scollamento che gli amatori dell’hip hop avevano provato all’avvento del conscious rap dopo anni di machismo, droga e sparatorie.
Una serie di domande sorgono spontanee:
Dov’è il fat beat?
È difficile parlare di beats su Kendrick già da DAMN. I producer che lo hanno sempre accompagnato, in particolare Sounwave e DJ Dahi, hanno seguito una crescita di gruppo in cui la vecchia scuola non è passata in secondo piano, anzi si è evoluta nella versione più cinematografica e spettacolare di sé stessa: non serve sottolineare il flusso teatrale di tracce come Mr. Morale per dire che MM&TBS non fa altro che seguire con groove il moto oscillatorio di tutte migliori colonne sonore dei nostri film preferiti, ma con un atteggiamento d’avanguardia fatto di strumentali scomposte, contaminazioni e interpolazioni di ogni sorta. Sarà un caso che We Cry Together riprenda in modo quasi pedissequo la lite tra Janet Jackson e Tupac nel film Poetic Justice?
Dov’è il pezzone?
Su DAMN. Kendrick aveva già preso una direzione ben precisa, lasciando però spazio a beats più spacca-collo, come quelli firmati da 9th Wonder e Mike WiLL Made-It. In MM&TBS, il concept è fluido, la narrativa frammentata ma così organica che qualsiasi elemento catchy rischierebbe di distogliere l’attenzione dal racconto, che in questo album più che mai è il fulcro del concept. Anche nei casi in cui, come in Silent Hill o Savior, sembra ci sia respiro per un po’ di bounce, basta un cut secco per riportarci alla realtà e rimetterci seduti ad ascoltare.
Dov’è il gospel?
Non solo con le parole, ma soprattutto con gli arrangiamenti Kendrick e i suoi cercano di contrastare i cliché. In questo senso, anche i cori sono un vessillo: non siamo nella chiesa battista di Kanye, non siamo affollati, abbracciati, arrabbiati. Spazio ampio, canoni gregoriani volutamente privati della personalità ed eco lontane e universali risuonano a sostegno della voce narrante, valorizzandola e tenendosi lontano dal servire scene stereotipate in cui l’ascoltatore possa cullarsi, e dunque distrarsi.
Per le domande più tecniche, come chi siano Mr. Morale & The Big Steppers abbiamo solo qualche insight. Su Twitter, ad esempio, sia Dave Free che Tanna Leone di pgLang si sono autoqualificati come “steppers”, ma è ancora troppo presto per mettere in piedi congetture da clickbait.
Forever grateful to be a Big Stepper ♠️
— Tanna (@TannaLeone) May 13, 2022
Lo stesso vale per il significato del tip tap intermittente lungo l’intera narrazione, o ancora il significato del nuovo moniker di Kendrick, che da qualche tempo ha cominciato a firmarsi Oklama.
Siamo ancora lontani dal comprendere totalmente Mr. Morale & The Big Steppers. Eppure è un corpo di lavoro tale che, se non porterà un altro Pulitzer alla voce di Compton, di certo basterà a noi per coprire gli anni che ci separano dalla prossima volta che il mondo parlerà di nuovo di lui.
Il figliol prodigo torna sempre a casa. E ancora una volta, Kendrick è tornato a Compton e prega i suoi di riprenderlo indietro. In fondo “Kendrick made you think about it but he’s not your savior”. Agli occhi di tutti può sembrare il messia. Ma in fondo è come noi, è “noi”.
E mentre tiene in braccio la sua bambina e Whitney allatta il suo secondogenito, l’uomo divino coronato di spine guarda con sospetto fuori dalla finestra mentre il calcio di una pistola sbuca infame dalla cinta dei suoi pantaloni.