Una chitarra e un basso. Un busto vestito di uno stilosissimo completo color pesca dal taglio anni ’70. Ma soprattutto, una scultura di design del danese Verner Panton dal titolo Living Tower che si staglia morbida, sinuosa e minimalista su un limbo bianco. È con questa composizione immortalata dal fotografo Alan Lear che esattamente tre anni fa, a cavallo con il giorno del suo compleanno, Steve Lacy faceva il suo debutto ufficiale con il suo primo full lenght album dal titolo Apollo XXI.
Neanche a dirlo, 21 sono gli anni che Steve Lacy aveva al momento dell’uscita dell’album. A questo proposito, in un’intervista a GQ aveva detto: “I really wanted 21 in the name because this album felt like a coming of age to me. It represented everything that’s happened to me from 17 to 21. But I was like, I can’t just do the number 21 – that’s Adele. The word Apollo came into my head and something was telling me to look it up”.
Al momento dell’uscita di Apollo XXI, non era poi passato tantissimo tempo da quando, a 17 anni, Steve Lacy era uscito da Compton per entrare ufficialmente nei The Internet, con i quali aveva già passato due anni a scrivere Ego Death, che gli sarebbe valsa una prima candidatura ai Grammy. Da lì, non passa neanche un anno che nel 2018 Steve compone Pride, che andrà dritta sul quarto acclamatissimo album di Kendrick Lamar, DAMN.
In effetti sono tante le grandi tracce di grandi artisti che riportano il nome di Steve Lacy nei credits, come nel caso di Solange, J Cole, Denzel Curry e Goldlink. Ma su tutte, c’è una ragione ben precisa per cui Steve Lacy è diventato una leggenda, e cioè il fatto di aver composto la maggior parte dei suoi pezzi più celebri, compresa Pride e tutti i pezzi che compongono il suo EP Steve Lacy’s Demo, sul suo iPhone, come ha raccontato in diverse occasioni tra cui una TED Talk del 2017.
Chi si aspettava un progetto rivelatore dal primo prodotto solista di Steve Lacy è forse rimasto un po’ affamato dopo Apollo XXI. Senza background sull’artista e a un ascolto superficiale, le tracce potrebbero sembrare quasi delle demo non mixate, tutte una molto simile all’altra. La verità è che, se in Steve Lacy’s Demo il titolo dell’EP rispecchiava la qualità del suono, non era per mancanza di budget o di maturità artistica, ma per una ben precisa scelta stilistica che, in quanto tale, viene portata avanti dal membro più giovane dei The Internet anche su un progetto più strutturato e ufficiale come il suo disco di debutto. Anche qui, infatti, nonostante l’equipment impiegato vada ben oltre un semplice iPhone, la volontà rimane quella di trasmettere un suono acerbo, sincero e poco elaborato, in memoria dei tempi in cui Steve registrava nella camera vuota della sorella.
Non è un caso che, durante un’intervista a Wired, lo stesso Steve aveva definito il suo stile con la parola “plaid”: come per le migliori camicie da boscaiolo, infatti, nella sua musica il pattern è importante, non è basic e non è minimal; eppure, non collide con il resto, anzi nel complesso riesce a risultare semplice ma omogeneo e organico.
Apollo XXI, che a suo tempo si era guadagnato anche una nomination ai Grammy come Best Urban Contemporary Album, è stato il progetto che, per chi non lo conosceva, ha incorniciato definitivamente lo stile intenzionale e mai casuale di Steve Lacy e che, per chi lo conosceva già, ha confermato il fatto che per avere un’identità come artista, con o senza iPhone, devi comunque essere un genio.