C’è un tempo tremendo. Caldo afoso, cielo grigio: una cappa di sospensione (a)temporale, smossa solo da infami folate di vento improvvise — il cui unico utile sembra essere quello di spingere polline negli occhi. Di colpo, per far passare uno dei baristi, si apre la porta del Locomotiv Club di Bologna. Una tastiera percussiva, dal suono e ritmo inconfondibili, si mescola al rumore delle foglie e le urla dei ragazzini che giocano a calcetto. Per qualche momento l’aria si elettrizza e l’incantesimo malinconico è rotto; si rincorrono onde sonore dribblando le barriere architettoniche, restituiscono vitalità a una giornata di inizio estate che si è scordata di esserlo. Uno squarcio spazio-temporale gentilmente offerto dal soundcheck di Kamaal Williams.
Dopo l’imprevedibile exploit nel 2016 con “Black Focus” del progetto Yussef Kamaal – condiviso con il batterista Yussef Dayes e romanticamente subito abbandonato – il musicista e producer londinese ha continuato indefesso sulla sua strada piastrellata di groove. Nel 2018 ha pubblicato “The Return”, un vero e proprio “Black Focus Part II”, per la sua neonata etichetta — la “Black Focus” appunto. Giusto per mettere i puntini sulle i e non correre il rischio di vedersi sottratta la paternità della piccola rivoluzione scatenata con quel disco. Dopo di che nel 2020 è arrivato “Wu Hen”: un album con un approccio alla composizione più morbido e stratificato, che integra anche featuring vocali e in generale spazi più ariosi. Assieme alle solite, serrate, maratone ritmiche chiaramente. In mezzo, nel 2019, la partecipazione alla fortunata serie di mixati “Dj Kicks”, qualcosa di più vicino al suo alter ego da producer (che poi coincide con il suo nome di battesimo) — Henry Wu. Poi collaborazioni a vario titolo, la nascita di un’amicizia tramutatasi in collaborazione con il compianto Virgil Abloh, tanti viaggi in giro per il mondo.
Quando finalmente il check è finito, Henry/Kamaal si presenta con indosso una splendida maglia vintage del Barcellona, di un giallo intenso. Da persona che non ha problemi a lasciarsi individuare in mezzo alla folla. Dopo le presentazioni e aver ricevuto in dono il mio nome amabilmente reinventato da un irresistibile accento inglese vagamente cockney, ci sediamo al tavolo con la band per scambiare due chiacchiere. Kamaal non si concede facilmente: la sua ultima intervista risale a Marzo, per Hypebeast; prima dobbiamo tornare indietro addirittura di uno o due anni. Gli faccio infatti notare che questa è la sua prima intervista per una pubblicazione italiana. “Davvero? No dai, non può essere. Beh, vuol dire che hai l’esclusiva quindi [ndr. ride]”. È dai primi minuti passati insieme che ritrovo in lui delle vibrazioni familiari. Le associo ad un’umanità che conosco molto bene, perché si trova principalmente a Roma sud. Una sorta di approccio propositivo, ironico e caustico: insomma, “in attacco”. Un’energia apparentemente caotica, il cui fine in realtà è quello di prevalere sull’interlocutore, costruirsi uno scudo per muoversi senza avere rotture di palle. Ma integrando anche la capacità di fermarsi a riflettere, elaborare con calma e profondità: bisogna sapercisi districare. Insomma, sono stranamente a mio agio. Qui a Bologna, nel locale hipster della città, in compagnia di un musicista londinese di origini taiwanesi con la maglia del Barcellona: mi sento un po’ in un bar della periferia romana.
“Mio padre ascoltava tantissima musica. Un sacco di Marvin Gaye, Carlos Santana, Miles Davis, Dave Brubeck. Ogni volta che entravo nella sua macchina c’era sempre musica nuova. Ricordo di aver memorizzato ‘Songs in the Key Of Life’ di Stevie Wonder. A scuola poi c’era una classe di batteria djembe, quello è stato il mio primo strumento.” Dove accadeva tutto questo? “Londra, sud di Londra, Peckham”. Stai a vedere che le vibrazioni di South London e quelle di Roma sud sono effettivamente simili. “Ascoltavo anche tanto hip-hop statunitense e grime inglese. Penso che le mie orecchie siano sempre state attente e in accordo con la musica. Il pianoforte l’ho iniziato a suonare a diciassette anni, lì è stato il momento in cui ho iniziato a produrre e fare tutto.”
“Il ritmo per me è importantissimo,
suono il pianoforte come fosse una percussione”
Ad oggi, la musica di Kamaal nasce e muore nel groove. Scoprire che il suo primo strumento è stato percussivo quindi non sorprende. “Il ritmo per me è importantissimo, suono il pianoforte come fosse una percussione.” Ci interrompe con mugugni di assenso Samuel Laviso, il giovanissimo ma eccezionale batterista francese di origini caraibiche in tour con Kamaal. “Sì è vero, il tuo approccio è quello, te lo dico per farti un grande complimento.” Kamaal se la ride. “Con Samuel suoniamo assieme da qualche mese. L’ho incontrato a Parigi l’anno scorso così come Janoya [ndr. il trombettista]. Sono qui con la crew parigina insomma, PSG!” Ridiamo tutti quanti di gusto, mentre un ragazzo arrivato presto per il concerto si ferma davanti a noi. Fissa Kamaal senza pudore, sconvolto. Le mani sulle guance sottolineano lo stupore, in un perfetto cosplay dell’urlo di Munch. “Ho Messi e Neymar come band. Comunque sì, la relazione che ho con il batterista è fondamentale. In generale ho notato che a loro volta i batteristi si divertono a suonare con me, ci ritrovano quel tipo di “movimento”. Non parliamo di canzoni strutturate in un modo specifico, più di un mood.”
Gli faccio notare come questa attenzione al ritmo, al groove, sembra essere un denominatore comune del chiacchieratissimo jazz londinese. “Non so cosa dirti sul resto di Londra. Posso parlarti con cognizione di causa della mia roba.” Che è roba, lo abbiamo stabilito, che viene dal sud della capitale inglese. Ma basta seguire Kamaal Williams sui social per intuire quanto negli ultimi anni abbia girato il mondo. La domanda quindi viene spontanea. Londra è ancora casa sua? “Sì, assolutamente. Sono a Parigi da tanto però, lì ho capito quanto mi piaccia suonare con persone di altri posti. Ognuno ha un approccio diverso, è di grande ispirazione. Ci sono grandi musicisti a Londra, ma il resto del mondo è un posto così bello, così grande; non voglio dare troppo credito a Londra, così tanto per farlo. È una città speciale, ma come altre. È anche una città veloce, crescere lì mi ha aiutato perché è un posto ‘serio’, mi ha dato un punto di partenza importante”.
“San Paolo in Brasile è stata un’esperienza incredibile,
e ovviamente gli Stati Uniti (…) Lì ho appena registrato il nuovo album”
Parliamo di questi viaggi allora, di questi luoghi “altri”. “Ho amato Tokyo, i posti in cui ho suonato sono stati tra i migliori in assoluto. Per dire lì ho suonato con un sassofonista che si chiama Takeshi Kurihara. Era uno dei membri dei Soil & Pimp Session, una delle prime band di cui ho comprato il biglietto per un concerto, a diciassette anni. Chiamavano la loro musica ‘death jazz’: un punk jazz melodico, dolce, ma anche energetico. Sono sempre stato un viaggiatore, per me è semplicemente parte della vita. Viaggiare, incontrare persone, fare esperienze. Penso sia una delle componenti più importanti del fare musica: documentare quei momenti. Ascolti musica di cinque anni fa e ti restituisce quel feeling preciso, ti porta indietro in un luogo specifico.” Sorseggio uno spritz dolcissimo mentre aspetto che continui a sbrogliare il filo del discorso. “San Paolo in Brasile è stata un’esperienza incredibile, e ovviamente gli Stati Uniti – New York, L.A.” Tra l’altro lui dagli Stati Uniti è appena tornato. “Lì ho appena registrato il nuovo album, a Chicago e Los Angeles, con musicisti incredibili. Quel posto è assurdo. Puoi incontrare un sassofonista per strada che fa numeri pazzeschi, è considerato normale. Vai a Chicago e ci sono cento bassisti di quella qualità, altissima. C’è qualcosa di diverso nell’aria.”
Diverso in che senso? Ci sono differenze nell’approccio strettamente musicale? “Penso di sì. Negli Stati Uniti la competizione è folle, quindi devi essere veramente bravo per lavorare. Lo standard è altissimo. Ma è comunque il feeling, il tocco a fare la differenza. Ho suonato con una violinista di Taiwan, Stephanie Yu, che ha lavorato con i nomi più grossi della musica americana. Il timbro del suo violino è semplicemente incredibile. Non so perché; ma per dire il producer mi diceva che quando stavano registrando Beyonce per gli Oscar, hanno provato diversi violinisti dell’orchestra. Parliamo dei migliori primi violini disponibili, ma quando ha suonato lei era semplicemente differente. Chissà perché succedono queste cose. La musica è semplicemente lì: cercare di descriverla a volte è complicato.”
Se quindi per Kamaal la musica è un mistero empirico, un riflesso di esperienze e stati d’animo, c’è da chiedersi come ha vissuto questi ultimi anni di follia globale. “La pandemia è stato un punto di partenza per quello di cui avevamo bisogno tutti quanti nel mondo: una pausa. Tempo per pensare a noi stessi. Durante quel periodo non ho composto nulla. Ma quest’anno invece, andando a Los Angeles, effettivamente ho scritto musica introspettiva. È diversa, più matura. Io sono cresciuto. Immagino suoni più come la musica di un “vecchio”, sono ancora giovane ma ho accumulato un po’ più di anni di sofferenza, più blues [ndr. ride]”. Effettivamente ad esempio sono anni che non torna sul progetto con cui ha iniziato a farsi conoscere come producer, Henry Wu. Ora sembra che le acque si stiano smuovendo anche in quella direzione. “Non faccio un disco di Henry Wu da cinque o sei anni. Però recentemente ero sempre a Los Angeles, in studio insieme a ThankGod4Cody, producer di Daniel Ceasar e SZA tra gli altri. Avevo questa strofa in testa da un sacco di tempo e lui aveva questo pedale della Korg, un effetto, non so bene neanche cosa fosse ma suonava in modo incredibile. Quindi sì uscirà nuova musica”. Gli capita spesso di essere affascinato e stimolato alla composizione da macchine specifiche? “Sì, ci sono strumenti che hanno un effetto particolare su di me. Chiaramente la tastiera Fender Rhodes, ma la prima volta è successo con un Korg Micro Preset M500 del 1977. All’epoca era costruito per essere una tastiera giocattolo, con cinque preset. Ne avevo comprati due visto che si rompono facilmente. Ora invece ho un Mellotron micro, comprato a L.A. è fantastico.”
“Ero molto amico di Virgil Abloh, abbiamo lavorato insieme ad alcune cose (…)
Era molto rispettoso della mia arte, delle mie idee.”
Non riesco a smettere di guardare la maglia del Barcellona. È veramente bella e mi fa venire in mente quanto, se si pensa a Kamaal Williams, a venire in mente è anche un’estetica precisa, in cui poco o nulla è lasciato al caso. Un gusto al crocevia di vari stili: un po’ jazzista anni Settanta, un po’ hipster-hypebeast newyorkese/giapponese, un po’ ragazzo della periferia londinese – un immaginario insieme analogico e digitale. “Sai cosa, è molto materialistico, ma crescendo a scuola, tutti quanti tenevamo molto a come apparivamo. A partire dalle sneakers, la prima cosa quando sei un ragazzino. Se ce l’hai ti senti bene. Niente di meglio di metterti un paio di belle scarpe, guardarti nello specchio e dirti ‘hey baby! Sono pronto’ [ndr. ridono tutti]. È piacevole avere un bell’aspetto, ti fa sentire bene. È importante, fa parte di te come artista. Il modo in cui appari è comunque un’arte, stai rappresentando te stesso, fa parte di te. È il tuo biglietto da visita, perché le persone prima di tutto ti vedono. A me viene naturale, non sono fissato. Forse perché mia madre è sempre stata molto attenta ai vestiti e al presentarsi bene, credo di averlo ereditato da lei”.
Una passione che si è tradotta in un avvicinamento progressivo anche pratico al modo della moda. “Amo i vestiti. Ero molto amico di Virgil Abloh, abbiamo lavorato insieme ad alcune cose, poi io sto disegnando e ho già disegnato diverse linee per il mio merchandising.” La stima dimostrata verso il jazz inglese dal compianto ultimo direttore creativo di Louis Vuitton e in particolare la relazione con Kamaal non è sfuggita ai più attenti. “Virgil ha iniziato a interessarsi al jazz made in UK tra il 2019 e il 2020. Yussef credo sia stato la prima persona con la quale ha lavorato. Poi anche Mansur Brown e infine ha contattato me. Era molto rispettoso della mia arte, delle mie idee. Si è preso il tempo per capire le cose e ci scambiavamo spesso impressioni, lunghe conversazioni su concept artistici, idee per show, per vestiti. Poi chiaramente ho fatto la musica per la sfilata di Tokyo 2020 con Yussef, Shabaka e Benji B. Poco prima che morisse aveva iniziato a dirigere un mio video musicale e ha fatto l’artwork per il mio album rap.”
Voglio rimanere con lui su questa connessione per certi tratti inaspettata. Penso spieghi più di mille parole sia l’unicità dei musicisti “jazz” inglesi, sia il modo in cui oggi funziona la mente di un creativo a tutto tondo. “Sì insomma, riposa in pace Virgil. Era un genuino amante dell’arte: penso che quello che ha dimostrato è che per essere all’interno dell’industria della moda non devi essere un designer, ma un visionario. È un nuovo approccio alla creatività, usare un pastiche di esperienze.” Appunto. Un approccio del genere è proprio di Kamaal: un musicista per lo più autodidatta, inserito spesso a forza nel calderone jazz ma che non è uscito dai giri di conservatori o accademie che di solito formano i suoi colleghi e possono rivelarsi un po’ elitari e costrittivi. “Sì assolutamente, risuona moltissimo con me quell’approccio che ti ho descritto. Non mi ritrovo nel percorso tradizionale, non mi descrive. Penso che ognuno debba trovare la sua voce.”
Foto di Marianna Fornaro.