L’uscita dei nuovi lavori di Drake e Beyoncé ha fatto molto parlare, e non solo perché sembrano scontrarsi in una beef silenziosa fatta di ritmi da discoteca (o, per dire di alcuni, “da camerino di Forever21”).
Come si evince dalla miriade di meme nati su questo tema negli ultimi giorni, infatti, molti fan dei due artisti, specialmente americani, hanno lamentato il fatto che le ultime fatiche di Drake e Beyoncé sembrino tagliate per essere apprezzate solo da un pubblico europeo, e che siano lontane anni luce dal sound hip hop e soul afroamericano che la loro fanbase si aspettava. Qualche tempo fa, le stesse critiche erano state mosse ad Azealia Banks, che dopo aver riportato in auge le sonorità house con il suo incredibile EP di debutto 1991, era stata accusata dai fan più ignoranti dell’hardcore hip hop di fare musica “per bianchi”.
Ma perché la credenza che la musica house sia una musica da bianchi è così largamente diffusa? Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro.
Un giorno di luglio del 1979, durante una partita di baseball a Chicago, il conduttore radiofonico Steve Dahl, stanco del monopolio della disco music su tutti gli altri generi musicali, organizza un rogo nel bel mezzo del campo dove vengono bruciati migliaia di vinili di musica nera. Una protesta sfociata in una sommossa a sfondo razzista che avrà come conseguenza un crollo a picco della popolarità fino ad allora indiscutibile della dance music: da quel giorno, ricordato come “Disco Demolition Night”, da genere più popolare sulla scena la disco torna a essere un genere strettamente underground.
Solo pochi club frequentati esclusivamente da afroamericani continuano a suonarla e, tra questi, uno è proprio a Chicago e si chiama “Warehouse”: è dall’abbreviazione di questo termine che nascerà il nome “House” music. Il Warehouse era un locale gay prevalentemente frequentato da afroamericani e latini, dove si consumavano serate di danze sfrenate guidate da alcuni DJ dalle skills sopraffine, ognuno dei quali pescava le perle della disco ormai dimenticate e dal mixaggio di due tracce ne generava di totalmente nuove, accelerate, ritmate, loopate, spinte al limite delle loro possibilità ritmiche. La musica house e tutte le sue derivate (deep, garage, microhouse e chi più ne ha più ne metta), sono tutte figlie di queste incredibili serate e, dunque, di un’unica cultura: quella afroamericana.
Che poi siano i bianchi ad aver tratto profitto da un’arte di matrice nera (così come ha fatto il proprietario dell’unica pressa di vinili di Chicago e prima etichetta house al mondo, la Trax Records) quella è un’altra storia. Noi siamo qui per celebrare i nomi di chi questo genere lo ha regalato al mondo senza interessi. Siamo qui per ricordare i nomi di chi è rimasto nell’underground ma ha dato vita a uno stile musicale che ancora oggi muove le dancefloor di tutto il mondo. Siamo qui per farti sentire i 5 DJ afroamericani che, di fatto, hanno inventato la musica house.