“Quando sono arrivato a New York ho fatto mille lavori. Ho lavorato come chef in diversi ristoranti, ho fatto l’imbianchino. Vendevo il sangue a 5$, compravo un biglietto per il cinema e ci restavo dentro a dormire tutto il giorno perché non avevo dove stare”.
Con queste premesse cominciava la storia di uno dei padri dell’Astral Jazz. Con queste premesse cominciava la storia di Pharoah Sanders.
Nonostante alcune leggende metropolitane (incoraggiate dalla biografia ufficiale di Sun Ra) vogliano che Farrell Sanders sia stato battezzato “Pharoah” proprio da Sun Ra, la realtà è che fu la nonna a scegliere questo nome per il nipote dopo averlo visto appena nato, come da lui dichiarato in un’intervista a una radio francese. Ciò nonostante, la figura di Le Sony’r Ra rimane fondamentale nella vita del sassofonista di Little Rock che, appena trasferitosi a New York, lo incontra durante un turno di lavoro in un club. “Ho incontrato Sun Ra in un club dove si stava esibendo. Io lavoravo nel basement e sono salito su per dirgli che suonavo il sax tenore. E lui mi fece entrare dalla porta principale”.
Dal suo arrivo a New York per tutti gli anni ’60, Pharoah Sanders, da musicista ancora senza tetto, diventa (quasi in modo inconsapevole) il filo conduttore di un’intera generazione di musicisti che cominciavano a tralasciare l’approccio melodico per perseguire un suono astrale e astratto, spaziale e sentimentale. In questo periodo, grandi nomi della scena jazz tra i quali Don Cherry, Billy Higgins, Lonnie Liston Smith e lo stesso Sun Ra abbracceranno visceralmente l’approccio impulsivo e organico di Pharoah, la cui ricerca astrale prendeva posto in quel vibrante immaginario orientato alla spiritualità di cui John Coltrane era il padre putativo. Sarà proprio l’incontro con quest’ultimo, seguito a ruota da una solida collaborazione con la moglie Alice, a ribaltare la carriera di Pharoah e a permettergli di dedicarsi alla sua ricerca sonora a tempo pieno.
Nomi come Kamasi Washington, Nala Sinephro, Georgia Anne Muldrow, Sam Gendel e Makaya McRaven, insieme a molte delle musiciste e dei musicisti che oggi popolano i nostri ascolti, hanno fatto propria la strada battuta da Sanders e dai protagonisti di una scena spiritual in cui la spazialità del suono è sonica, onirica, ma acclarata da forti sensazioni corporali che accompagnano il contatto fisico e/o uditivo con lo strumento. Anche gli estremismi delle più bacchiche perdite di controllo diventano canalizzatori di pura energia. Tutto scorre spontaneo, non c’è giusto o sbagliato, non ci sono regole. “Non sono il tipo di persona che arriva con un’idea… cerco piuttosto di farla accadere. La cosa più importante per me è entrare in comunicazione con gli altri musicisti. Non sono uno strumentista troppo tecnico, né troppo intellettuale come molti altri musicisti. Quello che faccio è esprimermi, tutto qui”.
Se commemorare è ricordare qualcuno di cui si percepisce l’assenza, noi non siamo qui per commemorare Pharoah Sanders. Perché nonostante il suo tempo fisico su questa terra si sia concluso lo scorso 23 settembre, il suo viaggio non si è mai fermato, continua e continuerà nelle voci dei contemporanei. Per questo vogliamo celebrarlo riprendendo il filo della sua legacy da questi cinque dischi con cui il faraone di Little Rock ha segnato un solco indelebile nella storia dell’Astral Jazz.