Hai 17 anni.
È notte e sei in macchina ferm* in un parcheggio con le tue persone del cuore.
State ascoltando il vostro disco preferito e state immaginando una vita avventurosa in un posto lontano da quello in cui siete nat*.
State fumando, e per caso, per errore o per qualche strana regola dell’universo prendi il blunt sbagliato.
È un attimo. Cominci a schiumare dalla bocca e tutt* vanno in panico.
Sempre lo stesso universo decide di darti la fortuna di aprire gli occhi il giorno dopo e di poterlo raccontare.
Sei Kendrick Lamar e quel fatidico giorno non solo decidi che non avresti mai più fumato (come più volte ha ribadito nei suoi testi), ma realizzi anche che in una città folle come Los Angeles, questo è uno dei modi più puliti in cui un bravo ragazzo possa perdere la vita. Da lì in poi K. Dot ha un solo obiettivo: consegnare questo e altri frame della sua adolescenza nelle mani dei ragazzi e delle ragazze di Compton e del mondo per rassicurarli che un’esistenza lontana dalla strada è possibile. Questo breve “film” il 22 ottobre ha compiuto dieci anni, e prende il nome di good kid, m.A.A.d city.
La narrazione si apre ancor prima di mettere play, con un’immagine del piccolo Kendrick in braccio allo zio sulla prima di copertina del disco. Sul tavolo un biberon accanto a una bottiglia di gin raccontano già una storia. E Ducky lo ha sempre saputo. “I got the first idea for this project on 2005. I knew it was going to be my first album. The album cover, I had that for years and I knew it was going to be my first album cover”, ha detto a ridosso dell’uscita del disco. “I’ve been planning this for years. Everything was premeditated. I knew I was going to use it and that it was the best description of what I was talking about in the album”. In realtà, in una fase iniziale, forse nemmeno lo stesso Duckworth era troppo convinto, a giudicare da questo video del 2009 in cui descrive una copertina alternativa che ricorda piuttosto quello che sarebbe diventato l’artwork per To Pimp A Butterfly.
Il racconto in sé è molto semplice, e parte con l’avvolgimento di un nastro e una preghiera.
Ipotetici titoli di testa si stagliano su uno schermo a ogni colpo del basso.
Il film può cominciare.
Ducky ha 17 anni. È innamorato per la prima volta in vita sua. Sherane, questo il soprannome della ragazza, viene definita nel titolo “la figlia di Master Splinter”, il ratto insegnante di arti marziali delle Tartarughe Ninja, a causa della sua estrazione sociale. Eppure è un costante raggio di sole, unica luce in una strada fatta di orrori e criminalità normalizzata. Ducky balza sul van nero della madre (quello raffigurato sulla copertina che accompagna la versione deluxe del disco) e durante il tragitto verso casa di lei immagina tutto ciò che succederà di lì a poco. Basta un nulla per interrompere il sogno: Ducky la vede, la saluta, due brutti ceffi si affiancano al van.
Suona il telefono.
Sono i genitori, che in un voicemail gli intimano di tornare a casa.
Bitch Don’t Kill My Vibe è la prima di due cesure del disco in cui non è più il Ducky 17enne, ma il Kendrick del presente a prendere la parola. In questo caso, la mano divina ha voluto che la primissima demo del pezzo, che vedeva la bizzarra partecipazione di Lady Gaga, non sia mai venuta alla luce. E così possiamo concentrarci sul timbro angelico di Anna Wise che canta “I am a sinner” creando una potentissima assonanza con le parole originali del sample danese dei Boom Clap Bachelors, quando Liv Lykke dice “Flakkende øjne ser mere nul end alt”, “un occhio che trema vede più buio che altro”.
La storia continua a snodarsi tra cose che potrebbero essere successe, ma che per qualche motivo non sono mai accadute. Sia per la vita di Ducky, che si trova a rischiare la pelle e ad assistere a scene traumatiche nei momenti più insospettabili, sia per la vita del disco, che è il frutto di un lavoro di cucitura certosino per omologare delle produzioni che spesso non erano destinate a finire lì, come nel caso di Backseat Freestyle, inizialmente prodotta da Hit-boy per Ciara.
L’altra faccia della medaglia, però, è che molte cose che non sarebbero mai dovute accadere, accadono senza preavviso e contro ogni pronostico. È così che dopo un viaggio attraverso sogni e abusi, disillusione e passione, amore e dolore, una scarica di spari trancia ancora il racconto sotto gli occhi di tutti.
Sing About Me, I’m Dying Of Thirst non è solo una preghiera gonfia di simbolismo, ma è anche una delle tracce più teatrali dell’intera discografia di Kendrick.
Il primo di tre personaggi a prendere parola attraverso le rime di K. Dot è forse il più emblematico: è il fratello di Dave, l’amico di Kendrick che ha appena perso la vita. L’uomo sa che anche lui da un momento all’altro potrebbe chiudere gli occhi per sempre, e per questo ci tiene a ringraziarlo per aver dato voce a chi di voce non ne ha più.
“And if I die before your album drop I hope…”.
Il nastro della cassetta che era partita al primo secondo del disco si riavvolge alla fine di Real, penultima traccia, riprendendo quella tecnica narrativa del “put it in reverse” che tanto farà parlare al momento dell’uscita di DAMN e della sua versione deluxe.
Siamo alla fine.
L’ultimo brano, Compton, con il featuring Dr. Dre, è il secondo a non entrare direttamente nel flow della storia, ma è un pezzo del puzzle fondamentale, essendo la prima canzone che Kendrick abbia mai registrato con Dre. “I wrote the lyrics the day I met Dre. I easily got inspired, I just started writing. And that was actually the first studio session I had with Dre. That’s the last song on the album for a specific reason. That’s the first song I did with Dre, that was the start of my new life” ha detto ai microfoni di Google Play.
La fine del disco è l’inizio della sua nuova vita.
The good kid, un ragazzo di 17 anni che guarda a un futuro radioso nonostante tutto intorno a lui sia morte e terrore.
The m.A.A.d city, Los Angeles, “my Angels on Angel dust”. La ricerca di quel viaggio della mente per fuggire alla realtà che a volte, come quella sera in quella macchina, può essere quasi letale.
Non esiste niente al mondo di più semplice, rapido e improvviso che scavalcare il recinto tra questa vita e l’altra. E con questo disco, dieci anni fa, Kendrick ci ha ammonito a non smettere mai di credere che, nonostante tutto, basta un raggio di sole perché ogni minuto su questo pianeta valga la pena di essere vissuto.