La fine dell’anno è a un soffio da noi, e guardando agli ultimi 12 mesi del panorama musicale sono tantissimi gli highlights da segnare a calendario: Mr Morale & The Big Steppers, Rihanna e Rocky, la rinascita della wave House, il ritorno di NxWorries, l’esplosione di Steve Lacy e chissà quanta altra roba. Per questa ragione, in mezzo a tutta questa bellezza, vogliamo prenderci un momento per una riflessione e chiederci se abbiamo effettivamente imparato qualcosa dalle ombre di una delle vicende più shady dell’anno, ossia quello che potremmo definire il Kanye-gate.
Cos’hanno in comune Filippo Tommaso Marinetti, Dennis Rodman e Kanye West? Semplice: tutti condividono lo stesso denominatore, ossia l’annosa ed eterna questione della scissione tra “l’artista” e “il personaggio”. In nessuno dei tre casi l’uno esiste senza l’altro, eppure Ye ci ha quasi abituatə a pensare che le due facce della sua medaglia coincidessero. Fin quando le manifestazioni del personaggio hanno riguardato l’interruzione del discorso di Taylor Swift ai VMAs del 2009, il cambio repentino della tracklist di The Life Of Pablo, lo slittamento eterno dell’uscita di Donda, o le rotture con GAP e Adidas, ci abbiamo quasi riso sopra scuotendo la testa e pensando “questo è proprio da Kanye”. Tuttavia, quando le uscite hanno cominciato a virare verso temi più delicati, a partire dallo schieramento con Trump, passando dalle minacce (più o meno) velate a Pete Davidson fino ad arrivare alle ultime recentissime dichiarazioni di matrice antisemita, ignorare il personaggio e gustare il Kanye artista come prima è diventato inevitabilmente più difficile.
A questo proposito, in occasione dell’uscita informale dell’ultima traccia dell’ex Louis Vuitton Don, Someday We’ll All Be Free, TikTok si è riempito di video di fan travagliatə, in shock e con la bava alla bocca per la qualità sempre impeccabile delle produzioni, ma dubbiosə e incredulə nel doversi trattenere dal godere la traccia al 100% perché incapaci di ascoltare in pace senza che le controverse dichiarazioni di Ye risuonassero nel loro retro-cranio. I video, oggi quasi tutti rimossi dalla piattaforma, si accompagnavano generalmente con la caption “Imagine dropping one of the hardest songs of 2022 after ruining your career”.
Nel revival nostalgico di un sound da “chop-up-the-soul-Kanye”, in Someday We’ll All Be Free Ye ha campionato ad arte un brano omonimo di Donny Hathaway del 1973. E alla luce dei recenti trascorsi di Kanye, risulta curioso rileggere le parole dell’autore del testo di questa perla soul, Edward Howard, che ha raccontato di aver scritto questo brano proprio nel periodo in cui a Donny Hathaway veniva diagnosticata una schizofrenia paranoica con cui avrebbe convissuto fino alla sua tragica scomparsa. “Mentre scrivevo questo brano pensavo a Donny, perché Donny era una persona molto problematica. A un certo punto ho sperato che potesse riuscire a liberarsi da tutto ciò che stava passando. Non c’era altro che potessi fare se non scrivere qualcosa che potesse dargli speranza”.
È difficile immaginare come il peso della fama e dei riflettori, così spesso accusato da Kanye nei suoi testi come insostenibile, possa amplificare le tendenze più estreme di un artista che, non dimentichiamolo, è prima di tutto una persona. Ma allora cosa abbiamo imparato dalla baraonda che ha travolto Kanye in questo 2022? Possiamo davvero perdonare qualunque cosa agli artisti e alle artiste che tanto ci hanno dato e tanto ci hanno aiutato a superare i nostri momenti più difficili? È difficile dare una risposta netta, ma forse, come in molte cose del mondo, anche in questa questione la giusta misura sta nel mezzo. E se l’adorazione cieca, automatica e incondizionata lascia il posto a un’adorazione critica, informata e consapevole, forse potremo passare un’altra di queste ultime serate del 2022 ad ascoltare Donda no-skip e andare a dormire senza farci divorare dai sensi di colpa.