Che Rareș avesse una bella stoffa lo avevamo già capito dal primo Curriculum Vitae ma è soltanto adesso che quella stoffa riusciamo a toccarla con mano per davvero.
Prima di Femmina, avevamo solo intravisto un cantautore con uno spiccato senso del gusto e delle buone intuizioni. Ora vediamo un artista a fuoco, una ricerca, un’esperienza compiuta.
Rareș lo chiama il suo primo disco, anche se in realtà sarebbe il secondo, perché è da qui che in un certo senso inizia il suo vero percorso: più consapevole, profondo e senza dubbio maturo. Le tredici tracce che lo compongono sperimentano su più fronti, dalla sessualità ai suoni, alla lingua che asseconda il polimorfismo che sta alla base dell’intero disco, mutando dall’italiano all’inglese, dal rumeno allo spagnolo.
Ci affascina la fluidità naturale con cui l’hyperpop si stempera nell’electro-pop e i richiami agli anni ’60 si inacidiscono con i synth, gli esordi folk dialogano con sonorità più contemporanee lasciando che fraseggi hip-hop, reggaeton e voci pitchate intervengano a rinfrescare il tutto.
E dunque, piacere di (ri)conoscerti, Rareș. Siamo molto felici di ascoltarti e sorprenderci di tutte le forme che riesci a inventare.
E grazie per aver raccontato questo percorso attraverso 5 parole fondamentali.
Ciao DLSO, spero tutto ok. Di fronte all’horror vacui della scelta per le cinque parole ho estrapolato cinque titoli dei pezzi di Femmina per cercare di coglierne l’essenza.
/fém·mi·na/
“Femmina, vieni qua, non mi va di stare qua, senza te, su di me, femmina, femmina”
La prima frase del primo pezzo del disco. Abbastanza self-explanatory, setta bene il mood di “ricerca della felicità” che permea tutto il resto del disco. Io, ad ascoltarla, mi sono sempre immaginato un bambino cantarla (da qui la voce pitchata in su), una persona conscia solo di ciò che desidera, non anche quanta fatica implichi ottenere l’oggetto del proprio desiderio.
/faz·zo·lét·ti/
“Fazzoletti a sinistra, due lire in geaca asta, è finito l’inverno, io ho la pancia” Constatazione letterale di ciò che conteneva al mia giacca nel momento in cui registravo. Fazzoletti in qualche modo è l’inizio del percorso compositivo. La giacca in questione è un ritrovamento della casa in cui abitavo quando ho iniziato a scrivere il disco, la indosso ancora ed ancora oggi devo capire a chi appartenesse.
Nelle tasche, quelle nascoste, tengo ricordini accumulati nel tempo di un sacco di persone: ho bulloni, perle, pezzi di alloro secco, mezza bustina di oki.
/iù·bi/
“Iubi kiss me iubi, stai attenta ai lupi”
Iubi è short for iubit/a, amato/a in rumeno. E’ un vezzeggiativo molto usato in lingua. Parola scelta come stendardo per tutte le situa del disco dove ci sono immagini di amore cute, di coccole e attimi dolcissimi, in contrapposizione a tutte le immagini ruvide, violente, di un amore che deve esplodere/implodere seduta stante.
/jk/
“Let it be, let it be, prega a Marì”
JK, just kidding. Il ritornello riprende il testo di, ovviamente, Let it be dei Beatles. Scelto perché rappresenta lo spirito del disco, mega ironico verso dentro e verso fuori. E’ pieno di cose pesissime dette con grande leggerezza che sto ancora cercando di capire se siano verità/finzione, consce/subconsce.
/mù·ta/
“Ho avuto l’onore di fare la muta con te, e forse avrò quello di fare un mutuo con te”
La frase conclusiva del disco. La realizzazione e l’accettazione di un cambiamento è una cosa spesso difficile, ma per far sì che avvenga bisogna ringraziare tutte le parti in causa per quanto fatto e detto insieme, che non è mai poco, mai scontato, mai inutile.