Cosa c’è dentro le nostre canzoni preferite? Il genio, certo. Il gusto, ovvio. Ma alla base di tutto c’è quel coacervo di suoni che deve veicolare entrambe le cose, e possibilmente molto altro ancora. Per questo, osservare cosa sta dentro una canzone, cosa fa parte della sua anatomia di timbri, può dirci molto. Ad esempio, perché sempre più canzoni sembrano contenere il flauto?
Una risposta semplice non può esserci: ma certamente le quotazioni di questi aerofoni si sono decisamente alzate di recente. Non solo è sempre più facile trovare flauti nei beat hip-hop (ci arriviamo), ma a questa famiglia di strumenti si sono abbandonati completamente artisti come André 3000 nel suo atteso ritorno New Blue Sun, o il sassofonista Shabaka Hutchings nel suo prossimo disco solista in arrivo ad aprile (Perceive Its Beauty, Acknowledge Its Grace). Il leader dei Sons of Kemet e The Comet Is Coming, peraltro, aveva già prestato ad André (nella traccia Ninety Three ‘Til Infinity and Beyoncé) il suo shakuhachi, flauto giapponese per il quale si era invaghito già nel 2019 e che ha spinto l’artista inglese in un tunnel flautistico, come può testimoniare chiunque lo segua su Instagram.
Come ha spiegato lo stesso Hutchings in una lunga intervista al Guardian, imparare alcuni di questi strumenti (in particolare lo shakuhachi), esperienza cominciata durante il lockdown, ha ridefinito le sue priorità, al punto da convincerlo ad abbandonare la sua casa londinese e girare per il mondo alla scoperta delle varie tradizioni flautistiche sparse sul pianeta. E non è difficile incontrarne, dal momento che virtualmente ogni popolo ha i suoi flauti. Stando ai ritrovamenti archeologici il flauto è il primo strumento complesso che l’essere umano abbia costruito per intonare melodie, al di fuori della propria stessa voce. Di conseguenza, nel mondo esistono migliaia di tipi di flauti differenti, prodotti con materiali unici (dal bambù dello shinobue giapponese all’ottone del traverso occidentale), modellati secondo forme e su scale e tonalità inconfondibili l’una dalle altre. Ma ciascuno di essi ha la capacità quasi sovrumana di farci sentire un tono dolce, caldo e familiare eppure radicalmente altro e celeste: per questo la sua associazione a un jazz misticheggiante e spirituale (come per Eric Dolphy o Yusef Lateef) è consolidata. La disciplina richiesta per suonarlo bene, le caratteristiche ambigue del suo timbro, la sua stessa diffusione globale fanno del flauto uno strumento capace di superare steccati culturali e, per chi lo volesse, suggerire una più intima connessione con il significato stesso del suono musicale, a prescindere da quale teoria armonica si segua. Eppure, proprio la popular music che oggi ne fa largo uso, è stata responsabile di una marginalizzazione del flauto.
Facciamo qualche passo indietro, fino alle radici del jazz. Nelle band ragtime e nelle formazioni orchestrali dei primi decenni del jazz, tutti gli strumenti della musica da banda o della classica furono in qualche modo cooptati: tranne il flauto. La sua proiezione sonora, il suo volume, il suo timbro sottile non potevano reggere di fronte all’energia di sax e tromboni, e l’insistenza sul beat non poteva che oscurarne il contributo. Prima dell’avvento dell’amplificazione elettrica, lo spazio è stato minimo. Allo stesso tempo, all’inizio del secolo scorso, invece, una nuova attenzione verso la dolcezza del flauto si era imposta sulla scena cubana con l’affermazione della charanga, piccola orchestra che agli ottoni preferiva i legni. Quando, alla fine, il flauto ha saputo imporsi negli Stati Uniti, c’è arrivato quindi con un’importante ipoteca latinoamericana.
Non a caso, una delle prime hit “moderne” basate sul flauto, Perdido, porta la firma del portoricano Juan Tizol. Nella versione di successo, incisa dall’orchestra di Count Basie nel 1954, l’assolo a inizio brano di Frank Wess sancisce quel legame con il nuovo mondo ispanofono, oltre alle potenzialità ipnotiche di questo sinuoso strumento. Anche quella che è forse la più famosa traccia di jazz flautistico, Soul Bossa Nova di Quincy Jones (1962), suonata al flauto da un altro pioniere come Rahsaan Roland Kirk, ha cementato questo rapporto geografico-culturale. Così, le influenze latine dell’intera scena West Coast si sarebbero riverberate in modo piuttosto decisivo sui beat hip-hop di quarant’anni dopo.
Non deve stupire che uno dei primi rapper a incorporare in modo deciso il flauto dentro un suo brano venga proprio dalla costa del Pacifico: Tha Shiznit di Snoop Dogg (1993), archetipo del G-funk a venire, è un tocco di genio di Dr. Dre, che – proprio come ai tempi d’oro del jazz – prende la melodia di una canzone pop (The Stranger di Billy Joel) e la traduce in una strumentale, questa volta proprio con il flauto. E non deve stupire nemmeno che ben due tracce incentrate sul flauto siano contenute nel disco che fa da compendio all’esperienza losangelina dei Beastie Boys, Ill Communication (1994), cioè Flute Loop e Sure Shot – in questo caso, un sample diretto di Jeremy Steig, sostenitore della fusione di jazz e funk attraverso il flauto con il suo modo di distribuire il fiato che accentuava non solo la funzione melodica ma anche quella percussiva dello strumento.
La versatilità del flauto, del resto, non era sfuggita anche al versante più bianco del pop, dove eredità classiche e folk portavano nuovi scopi per l’introduzione dello strumento. Come capita spesso, i Beatles aiutano a capire meglio come andavano le cose. Da una parte, nell’agosto 1965 esce You’ve Got To Hide Your Love Away, conclusa con nove battute di flauto contralto a solo (suonato da John Scott) che vogliono sottolineare la mesta solitudine di un amore che deve essere tenuto nascosto. Qualche mese dopo, anche The Mamas & The Papas in California Dreamin’ usano lo stesso strumento (stavolta in un intermezzo strumentale) con la stessa funzione elegiaca e malinconica: invitarci a considerare la fugacità della vita. Due anni più tardi, nel 1967, dentro una temperie culturale molto più vicina al misticismo e alla psichedelia, The Fool On The Hill intesse tre flauti nell’arrangiamento per sottolineare la situazione ultraterrena (ma anche un po’ assurda) del brano, concluso da un assolo sbilenco di tin whistle suonato da McCartney in persona, che se da una parte rimandava al folk gaelico, ricordava anche l’andatura storta di un trip.
Questa duplice specificità da strumento mistico ed esistenzialista, accompagna il flauto per buona parte della sua storia pop e rock, dall’intro della più celebre canzone dei Led Zeppelin suonata con i flauti dolci da John Paul Jones, agli assoli trillanti e alle suggestioni classiciste di Ian Anderson dei Jethro Tull, passando per le complesse orchestrazioni dei primi Genesis (vedi Firth of Fifth o Dusk). Ma il genere che ha creduto con più continuità nelle potenzialità del flauto è stato di gran lunga il rap. Basta pensare che perfino una diss track brutale come Hit ‘Em Up di 2Pac e Outlawz (1996) viene addolcita dal suo intervento, e allo stesso tempo proprio per la sua presenza fa suonare immediatamente più West Coast una traccia che voleva esplicitamente tracciare un solco tra le due metà della nazione rap. Il flauto non era tuttavia esclusiva di LA: A Tribe Called Quest e ancora prima Eric B. & Rakim ne avevano fatto già uso. In particolare, Paid In Full di questi ultimi, attraverso il sample (poi ripetuto da molti altri) di Ashley’s Roachclip dei Soul Searchers, con la sua scala armonica minore intonata da Lloyd Pinchback che richiama la musica nordafricana, apre un’altra porta nel modo in cui l’occidente ha rimesso il flauto al centro. Quella porta sarebbe stata spalancata nel dicembre 1999 da Jay-Z e Timbaland con Big Pimpin’, incentrata su un sample (peraltro non approvato, e causa di tribolazioni legali) del brano Khosara Khosara scritta dall’egiziano Baligh Hamdi e incisa dal connazionale Hossam Ramzy. Per quanto con ingenuità e una certa mentalità coloniale, il flauto poteva stabilire contatti inattesi tra occidente e oriente, nord e sud del mondo.
Al di là dei grandi nomi, alcuni dei più grandi innovatori del vocabolario sonoro hip-hop hanno giocato con i flauti. Nel settembre 2001, J Dilla (allora noto come Jay Dee) pubblicava quello che sarebbe stato il suo singolo da MC più celebre, Fuck The Police, che con il sample dell’oscura Scrabble di René Costy & His Orchestra mette in evidenza le qualità da “crate digger” e di acuto campionatore di Dilla, che di tutto il groove originale pesca solo questo fischio irriverente. Qualche anno dopo, Madlib per All Caps dei Madvillain spezza le ossa alla sigla della serie TV Ironside, cavandone fuori anche un hook di flauto tanto sporco nella registrazione quanto evocativo: dentro una produzione così ruvida e oscura, questo strumento ancestrale davvero sembra trascendere il tempo, come un dispositivo mnemonico psicanalitico che riporta alla luce ricordi profondi di infanzie televisive, e per cui anche la sporcizia lo-fi del campione ha una sua funzione estetica. Qualche anno dopo, nel 2007, l’inglese Burial avrebbe usato una logica del tutto simile (hauntologica avrebbe detto Mark Fisher) per modellare il suo capolavoro Untrue: guarda caso, nella title-track compare proprio quello che sembra un flauto (elettronico, pescato dalla traccia techno ambiente Hikari di Hiroshi Watanabe) la cui natura insieme umana e ultraterrena ne fa a questo punto una presenza demoniaca.
Tutto questo, e non solo, converge in un assoluto rinascimento del flauto che l’ha portato dentro la cassetta degli attrezzi di qualsiasi produttore dalla metà degli anni Dieci. La ragione più probabile, oltre a quanto già detto (la mistica, la memoria, l’esotico, il celeste, il luciferino), sta banalmente nelle esigenze più strutturali dell’arrangiamento. Mentre i bassi di trap, drill e grime andavano a scavare sempre più nella parte bassa delle frequenze e i flow spesso farfugliati o rimodulati dall’autotune si imponevano con prepotenza nelle medie, la parte alta dello spettro restava scoperta, una terra ignota da esplorare con lead strumentali squillanti, se possibile. Il flauto era un ottimo modo per completare questi brani. Lo senti in alcune delle canzoni esemplari di quest’epoca hip-hop: Mask Off di Future, tanto per citare forse quella che più di tutte beneficia di un inciso melodico misticheggiante mentre l’808 ci tuffa sotto una melma di bassi, lasciando che i temi originali del brano campionato (Selma, dall’omonimo concept jazz funk su Martin Luther King) facciano un lavoro subliminale sull’ascoltatore. Ma a queste conclusioni erano arrivati qualche anno prima già altri fautori (diretti o indiretti) dello shift nei gusti e nei suoni.
Dei precocissimi Migos nel mixtape No Label 2 del 2014, un terreno di coltura per la nuova cultura in arrivo, con Antidope. O Travis Scott in Wasted del 2015, dove lui, Metro Boomin, Mike Dean e Frank Dukes pescano chissà come un flauto allucinato da un disco della band psych-rock thailandese T. Zchiew & The Johnny. Un flauto sorregge Real Friends di Kanye come diverse tracce di Gucci Mane e 2 Chainz, Lil Yachty e Skepta (tirando un ponte sopra l’Atlantico). Si tratta di una presenza ormai familiare, alla quale si può provare a dare un nuovo senso: di orgoglio e forza. che del resto. Considera la colonna sonora di Black Panther, dove il tambin (flauto diagonale del popolo Fulani del Sahel) viene usato per il tema del personaggio di Killmonger, e quindi per rappresentare la riconquista delle proprie radici africane: Big Shot di Kendrick e Travis Scott, che usa quello stesso tambin, tiene insieme tutto quanto, i suoni digitali oscuri della nuova generazione e il gusto West Coast alla vecchia, il flauto del soul e del jazz e quello dell’Africa Occidentale pre-diaspora.
Guarda caso, furono proprio le cover di Mask Off e Big Shot a rendere popolare Lizzo sui social, prima che la sua carriera decollasse: in parte la sua fama, insomma, dipende dal rinascimento di questo strumento dentro le timbriche del rap. Ma con lei il flauto (più nelle interpretazioni dal vivo che non nelle versioni in studio) diventa anche strumento di espressione di forza, un bastone magico che permette all’artista di dichiararsi “100% that bitch”: metà vanto nerd, metà oggetto di empowerment di genere, il flauto è potente eppure sensibile, leggendario eppure a suo modo ridicolo, l’avatar delle moltitudini contenute in qualsiasi essere umano. Non si può negare che il flauto sia ritornato dentro le conversazioni pop negli ultimi 5 anni anche grazie alla discussa artista americana, e alla sua scelta di legarlo così nettamente a un’immagine dirompente. E se due settimane fa gli Yard Act hanno inserito un flauto jazz nella rapsodia psicanalitica Blackpool Illuminations, verso la fine del loro ultimo album, è anche merito della resilienza di questa voce così antica, eppure mai così di moda.
Ti lasciamo con una playlist che raccoglie un po’ dei nostri brani preferiti ft. flautini