Testo di Federico Pucci
Il 28 luglio 2015 il movimento Black Lives Matter aveva da pochissimo compiuto appena due anni di vita, dopo essere sorto spontaneamente in rete in seguito all’assoluzione del poliziotto responsabile per la morte di Trayvon Martin. Quel giorno, a Cleveland in Ohio, gruppi di manifestanti erano scesi in piazza per protestare contro gli abusi delle forze dell’ordine, motivati dall’arresto di un adolescente un paio di giorni prima, considerato eccessivo, e provocati durante la manifestazione stessa dall’uso di spray al peperoncino da parte delle stesse forze dell’ordine. Quel giorno, le masse si ritrovarono a marciare cantando non un classico delle battaglie per i diritti civili (come We Shall Overcome di Pete Seeger) ma una canzone pubblicata come singolo appena il mese precedente: Alright di Kendrick Lamar.
Non era la prima volta che una star dell’hip-hop si confrontava con l’attivismo nero del 21esimo secolo e in particolare con le istanze di BLM: un anno prima J. Cole aveva pubblicato Be Free, dopo l’uccisione di Michael Brown a Ferguson, in Missouri.
Nel brano, nell’interpretazione e nella produzione che uniscono rabbia, frustrazione e dolore, nella scelta di inserire la voce di un testimone oculare (Dorian Johnson, amico di Brown) c’è già tutto quello che la canzone di protesta di quest’ultimo decennio sarà: un luogo di confronto tra l’impotenza del messaggio e la permeabilità dell’era digitale; l’occasione di centrare il discorso sulle storie vissute in prima persona piuttosto che sull’espressione di ideali astratti; l’appello emotivo prima ancora che razionale; la figura tragica contrapposta a quella eroica della canzone civile. Se la prima metà degli anni Dieci avevano preparato il terreno politico mettendo al centro l’attivismo digitale attraverso ondate di proteste, da Occupy Wall Street alla Primavera Araba passando per Euromaidan, la musica stava cercando di sintetizzare questo stesso messaggio portando lo stesso protagonismo individuale al centro e superando definitivamente certe dicotomie. Come quella tra gangsta e conscious rap: l’intera discografia del duo Run The Jewels porta quest’evoluzione alle estreme conseguenze più ancora che con il debutto del 2013 con il secondo album dell’ottobre 2014. La parola d’ordine è “conflitto” dentro un lavoro che aggiorna al 21esimo secolo la promessa dell’hip-hop come “CNN of the ghetto” – concetto che 9 anni dopo Nas avrebbe messo nero su bianco con la sua Ghetto Reporter.
Personale e pubblico, insomma, sembrano conflagrare, tanto che diventa difficile distinguere tra mera testimonianza privata e autentica protesta civile. E non è un fenomeno che riguarda soltanto l’hip-hop. Si potrebbe anzi dire che quest’ultimo decennio di protest song ha inizio nel gennaio 2014 con Transgender Dysphoria Blues, il disco degli Against Me! che è tanto un inno al coming out di Laura Jane Grace come donna transgender quanto un atto di ribellione contro il conformismo di una società eteronormativa, dove l’oppressione è ovunque. Un discorso simile si può fare per il neo-soul abrasivo di Black Messiah che nel dicembre 2014 conclude la lunga pausa di D’Angelo mettendo al centro l’urgenza politica, il bisogno della musica di dare uno sfogo alle 1000 Deaths, una reazione energica alla vittimizzazione dei corpi neri e all’indifferenza della maggioranza. Un po’ come fece Marvin Gaye con What’s Going On più di quarant’anni prima.
Nello stesso tempo emergeva anche dall’altra parte dell’Atlantico una nuova coscienza della canzone impegnata. Mentre il grime macinava tra i suoi denti le stesse tematiche di racial profiling dei colleghi rapper americani, mettendo in luce le profonde ingiustizie di una società post-coloniale, la lunga gavetta degli Sleaford Mods proponeva un nuovo modo di raccontare dal basso le vicende di un Regno Unito di periferie e disagio: alla marginalizzazione costante operata dall’élite conservatrice al potere, il duo rispondeva con sdegno e disprezzo, constatando l’impossibilità della lotta di classe (Austerity Dogs del 2013 è forse ancora l’apice politico di un duo che poi ha fatto di tutto per non farsi ritrarre come band impegnata). Nel 2015 gli Young Fathers avrebbero riallacciato questa sensibilità al contrasto sociale con una coscienza del peso colonialista della storia britannica dentro White Men Are Black Men Too, discorso che avrebbero approfondito di album in album nel corso del decennio, culminando nel recente Heavy Heavy.
Mentre la questione razziale si fa sempre più presente alle coscienze britanniche (Black Man In A White World di Michael Kiwanuka, prodotto da Inflo ne è una lampante dimostrazione), l’intersezione tra ineguaglianze sociali e contesto politico-economico diventa centrale nell’alt-pop di protesta inglese. Nel 2016 The Hope Six Demolition Project di PJ Harvey unisce i trattini fra architettura sociale e oppressione economica, gentrificazione e genocidio, mentre Let Them Eat Chaos di Kae Tempest tiene insieme angoscia esistenziale e ingiustizie, aprendo la porta allo smarrimento che avrebbe dominato il resto del decennio. Quando a giugno il referendum per Brexit condanna il Regno Unito alla separazione dall’Unione Europea, diventa prioritario comprendere (anche in musica) le voragini psicologiche e socio-economiche della società britannica. Un presente impossibile da comprendere e un futuro impossibile da immaginare: le condizioni per il ritorno di un genere che aveva già incarnato questo dilemma, il post-punk.
Come vorrebbe il luogo comune, in America la questione è sempre più inquadrata in modo individualista. Se Lemonade di Beyoncé tiene impegnati per mesi i critici nel cercare di comprendere se questo racconto di tradimento si inserisca sinceramente o meno dentro la rinascita della coscienza black (Alicia Garza di BLM in un editoriale per Rolling Stone USA dice di sì), la Knowles minore sembra invece convincere subito tutti quanti da subito. A Seat At The Table di Solange, uscito pochi mesi dopo, focalizza tutto il discorso su di sé, eppure nessuno ha dubbi nel considerare l’album parte di una riflessione più vasta sul ruolo della donna afroamericana all’epoca della commodification dei corpi neri. A otto anni di distanza da quei dibattiti, si può dire che, a suo modo, anche Beyoncé ha contribuito decisamente a suggerire conversazioni scomode per la maggioranza bianca, pur nei suoi giga progetti commerciali: che si tratti di stabilire la legacy delle università nere nelle pratiche della musica live (Homecoming) o della maternità dei miti africani (Black Is King), fino al debito della dance o del country verso i dimenticati e derubati pionieri neri (Renaissance).
La fluidità ma anche l’assiduità dei flussi di contenuto nell’era digitale ha reso molto più complesso tirare una riga tra l’autonarrazione artistica e la testimonianza civile, tra l’intrattenimento e l’impegno: Nikes è una canzone di protesta perché Frank Ocean si identifica con tutti i ragazzi neri uccisi dalla polizia, oppure è una ricontestualizzazione del dramma sociale dentro la propria narrazione musicale? O, addirittura, un’appropriazione indebita? Determinare la purezza delle convinzioni di chi canta è un lavoro di polizia del pensiero che non ci compete. Sta di fatto che il mood di quest’ultima infornata di protest song è diffuso, e si può imputare a una precisa fase storica: la disillusione dell’era Obama, il tradimento delle sue promesse (sproporzionate) di pace sociale. Nessun lavoro compendia questa impotenza meglio dell’album Hopelessness di Anohni, uscito pochi mesi prima che quell’era si concludesse simbolicamente a novembre con l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Omicidi mirati con i droni e vittime civili, riscaldamento globale e depressione sono il contesto di un fallimento insieme individuale e collettivo, di fronte al quale bisogna cercare di mettere in salvo la propria umanità contro le trappole del cinismo.
Qualcuno, insomma, prova a creare questo futuro migliore, quantomeno nella musica. Il rinascimento dell’estetica e della filosofia afrofuturista si inserisce anche in questo contesto, oltre che nel crescente impatto culturale della moderna diaspora africana. Immaginare un futuro africano non è solo una scelta estetica, ma un atto rivoluzionario che arriva a dominare soprattutto il jazz, da entrambi i lati dell’Oceano, dai Sons of Kemet di Shabaka Hutchings e Tom Skinner al free jazz di Moor Mother e degli Irreversible Entanglements. Contemporaneamente, altri artisti hanno deciso di andare dritti al ventre. Nel 2017, un disco come The Underside of Power degli Algiers da Atlanta si impegna a rimettere al centro la lotta, usando il suo ibrido soul punk non come punto d’arrivo di un’idealistica sintesi delle culture, ma come puntello per la rivoluzione.
D’altronde, l’ultimo scorcio di anni Dieci ha visto sempre più rilevanti letture anche molto combattive del concetto di protest music: basta pensare all’ascesa degli IDLES, che con il loro cocktail di ira e gioia (come atto di resistenza, s’intende) hanno inondato club, festival e classifiche inglesi, per poi dar loro fuoco – metaforicamente parlando. La convinzione che non ci sia niente di “great” nella “britain” non è solo l’eccellente gioco di parole per un album di slowthai del 2019, ma una convinzione ormai assodata. L’Occidente, impaurito dagli “altri, si consuma in un tessuto morale dilapidato, nell’individualismo sfrenato che isola gli ultimi e motteggia la solidarietà, nel sospetto e nell’odio che alimentano teorie del complotto grottesche e consolatorie: queste non sono più soltanto visioni apocalittiche di una minoranza intraprendente, ma una realtà evidente in tante parti del mondo. Se Childish Gambino può racchiudere in tre minuti tutto il male degli Stati Uniti ed essere accolto a braccia aperte da milioni di ascoltatori non è soltanto per il beat appiccicoso di This Is America, ma perché nessuno mette in dubbio la veridicità della sua ricostruzione. Certo, anche la forza puramente musicale della protest song ha una sua utilità: se c’è una cosa che il decennio 2014-2024 insegna è che la canzone civile deve attirare l’ascoltatore a sé, e non viceversa.
Ditelo a un produttore e musicista di gusto infinito come Inflo, che con i suoi Sault o come collaboratore di Little Simz ha contribuito in modo decisivo alla produzione della protest music inglese più affascinante in circolazione: Introvert della suddetta Simz, nel 2021, è forse uno dei momenti più illuminanti perché allaccia diverse visioni transatlantiche della canzone civile, tra personale e sociale, memorialistica e attivismo, in un beat antico e futuribile allo stesso tempo. E sono proprio queste coordinate a rendere sempre più difficile la distinzione tra brano impegnato e puro discorso personale. I ricordi dell’attività rivoluzionaria del padre fanno di billy woods un rapper politico o un memorialista? L’autobiografia di Open Mike Eagle nei palazzoni di Chicago va inquadrata in ottica individuale o collettiva? La ferocia di Noname contro il maschilismo dell’industria musicale ne fa una voce femminista o soltanto la narratrice di un proprio struggle? La risposta è la più complicata e meno soddisfacente che possa esistere: dipende.
Del resto, non mancano voci più dichiaratamente impegnate, dai clipping. a Black Thought, ma questo decennio di protest music ha rimescolato le carte sull’ordine degli ingredienti. Dimostrando, però, che l’attualità della protesta è indubbia. Il mondo è in subbuglio, e anche il racconto perlopiù personale di un Hellmode di Jeff Rosenstock si intesse nel grande arazzo di questa lunga marcia comune. Ma questo non significa che la canzone di protesta si sia annacquata irrimediabilmente. Basta pensare alle canzoni che discutono del movimento di grandi masse di persone dal sud al nord del mondo, tema che sembra occupare le discussioni elettorali di tutto l’Occidente. Nel 2022 Alynda Segarra, artista di origini portoricane che risponde al nome Hurray For The Riff Raff, aveva raccontato la storia di chi, arrivando clandestinamente negli Stati Uniti con la speranza di trovare una vita migliore, vi aveva trovato invece le pratiche repressive dell’ufficio immigrazione americano. Precious Cargo è una celebrazione tragica dell’umanità, vista con un occhio totalmente contemporaneo, tanto da spingere lo stile folk dell’artista verso una sintesi con rap e reggaeton.
A proposito di reggaeton, non si può ignorare che nell’ultimo decennio la musica latina è entrata di diritto tra le scene dominanti del mercato mondiale. Il genere nato all’ombra del predominio politico, economico e culturale nordamericano, a Panama e Puerto Rico, è diventato patrimonio comune dell’intera America latina. Non solo per l’orecchiabilità, ma in virtù dell’orgoglio latino che dimostra: proprio come abbiamo detto per la black music e l’orgoglio afrodiscendente, così questa scena contiene dentro di sé la scintilla di una protesta. Ma in certi casi questa natura profonda è venuta alla luce in modo evidente. È il caso, ad esempio, di Afilando Los Cuchillos, collaborazione del luglio 2019 di Residente, iLe e Bad Bunny che mescola la grammatica della diss track con l’inno rivoluzionario: la traccia non solo uscì in contemporanea con le proteste contro il governatore Rosselló, ma Residente e Bad Bunny parteciparono alle marce di 500mila persone contribuendo direttamente alle successive dimissioni del politico. A dispetto delle commercializzazioni e banalizzazioni, delle appropriazioni e del cinismo, insomma la protest song è ancora viva. Non solo: se l’attivismo digitale sembra destinato a gesti di puro narcisismo etico, è proprio la musica che può ancorare di nuovo queste coscienze sveglie a un senso di comunità. Basta restare in ascolto.
E in Italia? Prima di chiudere questo discorso non si può non fare una postilla sul nostro Paese, dove per decenni e tuttora la musica d’impegno è sembrata soltanto un affare per nostalgici degli anni ‘70. Nonostante i tentativi di cooptare la musica di protesta dell’ultimo decennio italiano dentro logiche antiquate, anche da noi ha trionfato la simbiosi tra discorso personale, generazionale e politico. Non che abbia attecchito in modo profondo: basta vedere – ad esempio – quanti colleghi rapper hanno seguito l’esempio di Marracash di dedicare una canzone al disastro climatico. Eppure, le reazioni scomposte del Governo contro le canzoni umanitarie di Ghali e Dargen D’amico a Sanremo (non proprio la più controculturale delle vetrine), e il successo commerciale delle stesse canzoni, dimostrano che il nervo è scoperto. Se nell’ultimo decennio tanta musica italiana, rap e pop, indipendente e di major, ha puntato più sul ripiegamento personale che sull’azione collettiva, anche qui ora il vento potrebbe cambiare. Un giorno ci toccherà anche parlare di chi in questi anni ha soffiato per primo.