Testo di Federico Pucci.
In un’epoca quanto mai distratta nel riconoscere il valore della musica come la nostra, una parola piuttosto antiquata sembra tornata ad avere peso, una parola altrimenti confinata negli angusti spazi della nostalgia, del lusso e dell’accademia: jazz.
Un esempio? L’insistenza con la quale la proposta musicale della cantautrice islandese Laufey viene incastrata a forza nella tradizione jazz, per quanto sia tranquillamente definibile secondo altre categorie. È come se una parte importante del pubblico fosse affamato di jazz, e per questo accettasse questa definizione, per quanto imperfetta. Ma questa è prima di tutto la caratteristica dei generi musicali: appartengono agli ascoltatori che ci si riuniscono intorno facendo comunità piuttosto che agli artisti davanti allo spartito o in sala d’incisione. Il jazz è prima di tutto un costrutto sociale intorno a cui decidiamo di riconoscerci o meno in quanto fruitori di musica e frequentatori di spazi musicali. E, se vogliamo dar retta al report sui futuri trend del 2024 pubblicato tre mesi fa da Pinterest, il jazz è tornato ad affacciarsi prepotentemente negli interessi dei giovani (Gen Z) e dei meno giovani (millennial) che l’avevano snobbato per anni.
Stabilire il momento esatto in cui si è verificato questo cambio di attitudine può essere complicato: il jazz non ha mai smesso di evolvere, ricercare e influenzare chiunque ne venisse a contatto. La storia dell’hip-hop, per esempio, è costellata di continue riemersioni di questa radice culturale, da The Low End Theory (1991) degli A Tribe Called Quest, dove compare nientemeno che Ron Carter, all’invasione della Blue Note da parte di Madlib nel 2003 con un famigerato remix album, da Things Fall Apart dei Roots (1999) fino all’arrivo della generazione dei Tyler e dei Kendrick che avrebbero messo il jazz al centro dopo oltre un decennio di rap dominato da altre influenze.
Qualcosa è successo a cavallo degli anni Dieci, come raccontato in un’intervista del 2019 dal co-fondatore della label Acid Jazz nonché apprezzatissimo DJ Gilles Peterson: “Se passo una traccia jazz al Warehouse Project di Manchester ricevo una reazione impensabile solo dieci anni fa. Ora le persone sono più aperte che mai al jazz e sono ben disposte a sentirlo nella trama di qualsiasi cosa che ascoltino”.
Considerato lo specifico contesto a cui faceva riferimento Peterson, è difficile non vedere l’impatto a lungo termine del lavoro di DJ e produttori di elettronica britannici che hanno traghettato il gusto di IDM, ambient e drum and bass verso le geometrie complesse del jazz. Un lavoro di contaminazione che ha avuto proprio in Peterson uno dei suoi primi pionieri, ed è proseguito passando dalle serate alle produzioni discografiche. Dallo Squarepusher di Ultravisitor al Bonobo di Days To Come, ai quali è stata spesso assegnata l’etichetta di nu jazz, passando per Four Tet e la sua lunga infatuazione con Coltrane (Alice e John) o Sun Ra, una generazione di produttori elettronici ha messo alla prova non solo le possibilità armoniche o spirituali del jazz, ma la sua potenziale funzione di intermediario tra scene, correnti, sottoculture disparate, dall’hip-hop alla house, dalla musica concreta al trip hop. Oggi sarebbe difficile riprendere in mano la quadrilogia di album che Hebden ha inciso con il batterista Steve Reid nella seconda metà degli anni Zero e non intravedere in controluce il percorso che ci avrebbe condotto fino a Promises, il disco del 2021 di Floating Points con Pharoah Sanders e la London Symphony Orchestra, che probabilmente passerà alla storia come uno dei migliori album di questo decennio.
Ma vedere la storia del “ritorno” del jazz solo attraverso la lente dell’elettronica e della club culture sarebbe più che riduttivo: mentre oltre Manica succedeva quanto detto sopra, nel Nord America la fusion continuava a sfornare nuove figure di culto. Se Esperanza Spalding e gli Snarky Puppy si dividevano tra festival, dischi acclamati e un pubblico live sempre più nutrito, affiancandovi del gran lavoro dietro le quinte, dal Canada nomi come Colin Stetson e BADBADNOTGOOD proponevano un approccio alle contaminazioni senza limiti nello spettro dei generi e delle scene in cui si sono inseriti, portando il primo nell’orbita dell’indie rock più coraggioso e i secondi in una scena Odd Future che stava cambiando le carte in tavola.
Tra le prime tracce incise dai BBNG, Camel porta la firma di Flying Lotus. È un contatto che non può stupire: da sempre, anche per via del suo legame familiare con Alice Coltrane, Steven Ellison ha portato avanti una tradizione tutta americana, mettendola in dialogo con il sampling e il rap. E tuttavia ancora nel 2014 con You’re Dead poteva citare Bitches Brew di Miles Davis come ispirazione principale. La sopravvivenza di questo tipo di gusto, dopo anni di popolarità schiacciante di altri stili, sarebbe emersa con prepotenza in To Pimp a Butterfly, l’album che non solo ha incoronato Kendrick Lamar come l’MC più importante della sua generazione, ma che avrebbe fatto conoscere a un vasto pubblico la musica di Kamasi Washington, ospite sulla traccia u, ma responsabile degli archi dell’intero progetto, e – in misura minore – quella del bassista Thundercat.
Il triplo LP del sassofonista, The Epic, uscito due mesi dopo l’album di Lamar, apre una stagione nella quale i grandi festival come Coachella e Primavera Sound sgomitano per averlo in cartellone (cosa che succederà regolarmente nel 2016). Negli stessi mesi, Tyler pescava il vibrafono di Roy Ayers e lo metteva al centro della sua Find Your Wings: una nuova stagione si era aperta. Senza questo Big Bang forse sarebbero passate inosservate le intersezioni jazz di KAYTRANADA in 99,9% (altro album in cui fanno capolino i BBNG).
Ma, dicevamo, ogni storia di un genere musicale è la storia delle persone che ci si riconoscono, sopra o sotto il palco. Ed è grazie a questo incrocio socio-culturale che – tornando da questa parte dell’Atlantico – vediamo attecchire e fiorire la scena di South London: attraverso l’incontro e l’apertura mentale che ha permesso a nuovi artisti di sperimentare con gli stili e agli ascoltatori di appassionarsi senza sentire il peso dei gatekeeper della tradizione. Ritrovi come Tomorrow’s Warriors o Church Of Sound hanno dimostrato che, anche nella capitale della finanza esisteva una tribù di ascoltatori interessata a una musica non orientata al profitto, ma alla scoperta. O alla riscoperta. Come quella dell’afrobeat, spinta nel nuovo millennio dall’inglese Strut Records, che avrebbe poi pubblicato anche l’album Inspiration Information 3 degli Heliocentrics con Mulatu Astatke. In questo lavoro del 2009, bisogna ricordarlo, il clarinetto e il sax tenore erano suonati da una persona senza la quale qualsiasi discorso sul ritorno del jazz (anche uno parziale come questo) sarebbe monco: Shabaka Hutchings. L’impatto di Shabaka nel revival del jazz cosmico (The Comet Is Coming) e afrofuturistico (Sons of Kemet) è ben conosciuto. Ma il suo eclettismo va riconosciuto anche in un percorso jazz-punk particolarmente abrasivo come quello della band Melt Yourself Down, che debutta sulle rive del Tamigi tre anni prima che si riconoscesse alla Brexit il merito di aver stravolto il post-punk inglese. Non che questo tipo di fusion fosse nuova di per sé – basta tornare con la mente ai Jaga Jazzist, per fare un solo esempio. Ma la sua rilevanza, specie in ottica anti-reazionaria dentro il caotico decennio di governo Tory, è rinnovata dall’esempio di Shabaka, Tom Skinner e soci. Difficile non notare non un’influenza ma un sentire comune dentro le colonne di settime e none e dentro il sincopare furioso dei black midi.
Anni di contaminazioni, esperimenti, aperture, scene sotterranee e talenti mostruosi hanno insomma riscritto il sussidiario musicale di una generazione di artisti inglesi, anche quando non si identificano con il jazz. Mentre da South London e non solo emergevano talenti sopraffini come Nubya Garcia o Yussef Kamaal, Ezra Collective o Alfa Mist, l’eredità jazztronica risbucava nella musica avant-pop del duo Jockstrap, peraltro diplomati nella stessa Guildhall School of Music and Drama dove studiò Shabaka; l’esperienza della fusion inglese metteva legna nel fuoco R&B di Kamaal Williams; l’esperienza di Tom Skinner aggiungeva ulteriore lessico sonoro jazz dentro le composizioni di Thom Yorke e Jonny Greenwood, che già jammavano su Journey in Satchidananda ai tempi di Kid A. Una questione di curricula, certamente: ad esempio, non si può sentire Mary Jane di RAYE senza ricordare che ha studiato nella stessa BRIT School di Amy Winehouse.
Basta pensare all’esplosione social di berlioz, fenomeno senza-nome che ha fatto dell’accessibilità la sua bandiera, riuscendo a raccogliere intorno alla sua proposta jazz-house centinaia di migliaia di follower, e un pubblico affamato di live (la data sold out del 27 aprile ai Magazzini Generali di Milano potrebbe darci un indizio al riguardo): non è hype, è voglia di far parte di qualcosa che gli altri generi non riescono più a restituire.
In fondo, in questo senso, il legame con la club culture e il suo potenziale di aggregazione non è mai venuto meno: se da South London sono emerse idee che poco hanno a che spartire con l’elettronica, è lì che si è fatto le ossa il chitarrista Tom Misch, che cita Floating Points e i Daft Punk come influenze, ma ha la predisposizione e l’apertura a confrontarsi con altri punti di vista, come quello di Dayes, con il quale ha collaborato nel disco a quattro mani What Kinda Music. Il jazz è un campo gravitazionale che attira nel suo orizzonte degli eventi la musica che continua a orbitargli intorno: come il rap, che nella musica di Venna riesce a insinuarsi sotto forma di batterie drill in Alpha House di Knucks o nel flow serratissimo di Mick Jenkins su Casa Lopez. Venna, che ha lavorato con chiunque, da Burna Boy a Beyoncé, è un uomo simbolo del nuovo modo di intendere il jazz: un sassofonista di finissimo talento che riesce a essere tanto nostalgico (Coltrane, Parker e Davis sono la sua trinità) quanto permeabile alle voci del presente.
Ma oltre alla formazione c’è di più, un senso di appartenenza che i generi ultra-commerciali non offrono più, un desiderio di comunità e partecipazione pari solo alla fame per nuovi stimoli e nuove idee dentro un mondo che divora content senza sosta: tornando in America, non è difficile vedere tutto questo nell’appeal di un progetto come DOMi & JD BECK, al punto da convincere Anderson .Paak a investire su di loro. Di nuovo, non è solo la bravura prodigiosa: è la potenza del jazz nel digerire altri discorsi musicali e farli propri. Il che ce lo fa sentire non solo come una più autentica e disinteressata espressione di creatività, ma come una guida alla comprensione di una realtà mai così complessa e stratificata.