Testo di Federico Pucci
Ci sono parole del gergo musicale che entrano ed escono dal vocabolario con straordinario tempismo: oggi, per esempio, quasi nessuno parla più di blues; la parola funk, invece, ha ancora un valore. Forse per il carico che si porta dietro. Non esiste un genere musicale che ponga come suo comandamento essenziale la libertà di inventare al pari del funk: perché non è definito da quello che c’è, ma da quello che non c’è, lo spazio sgombro dentro il quale ciascuno può creare un proprio groove, la possibilità aperta di creare qualcosa di asciutto od opulento, frenetico o compassato. Questa è la radice di un genere che, fin da principio a metà anni ‘60, quando James Brown l’ha battezzato con pezzi come Cold Sweat e Papa’s Got A Brand New Bag, invitava a reinventare il canone musicale afroamericano da capo, puntando alla radice della sua espressione armonica e semplificando, togliendo, allargando spazi fino a che ciascuno potesse farlo proprio. L’altra regola del funk è che si batte sull’uno, e il resto vedi tu. La terza è che non esiste differenza tra strumento armonico, melodico e ritmico: tutti fanno tutto. L’ultimo pilastro del funk: il corpo prima di ogni cosa, fallo muovere e commuovere.
Con premesse di questo tipo, seguire le evoluzioni del funk può risultare caotico e impraticabile, e d’altro canto parlare di definizioni e canonizzazioni sembra vano e ridicolo e certamente non troveremo risposte soddisfacenti andando a cercare gli imitatori di George Clinton o di Sly Stone. Eppure, come si diceva una settimana fa a proposito del nuovo jazz, se qualcuno dice ancora funk, vuol dire che sente ancora funk.
E infatti oggi esistono diverse scuole e correnti musicali che si rifanno a quei comandamenti espressivi e tecnici, magari contaminando con le evoluzioni successive del funk, provando ad aggiungere qualcosa a una tradizione così originale e trasversale. Anche perché ovunque siano arrivati il rap, la disco, o la house, lì c’è del funk. Proprio per questa ragione le sue evoluzioni contemporanee possono insinuarsi in ogni pertugio musicale, trovando nuove case e nuove voci. Ad esempio, il Mar Mediterraneo e il napoletano, nel caso del sontuoso revival funk e disco al quale assistiamo qui da alcuni anni. Un funk partenopeo arrivato soprattutto sulle ali della disco, che ha lasciato un solco inciso sulla faccia di una città intera, come memoria condivisa e come pratica musicale, tra star riconosciute del livello di Tullio De Piscopo o Pino D’Angiò e anticipatori rimasti più in ombra. Ne vediamo il lascito, ad esempio, nella musica dei Fitness Forever di Gaetano Scognamiglio (nome che incontreremo di nuovo, a breve) e in quella dei Nu Genea. Questi ultimi, in particolare, oltre ad aver scritto le proprie pagine di una storia regionale e globale, vi hanno contribuito anche partecipando (con DNApoli e Famiglia Discocristiana) all’importantissimo lavoro di riscoperta delle compilation Napoli Segreta, sulle scorte dell’omonimo DJ-set che dal 2015 riporta alla luce gli antenati poco celebrati del funk tirrenico.
A parte la provenienza, quello che accomuna il Napoli funk nel suo insieme è la natura profondamente pop e disco della sua matrice: la rotondità del tono dei bassi che scoppiano come palloncini, la prevalenza del mid-to-uptempo, l’uso delle voci come tappeto ritmico nei refrain, la presenza di incisi melodici acuminati sono caratteristici anche per il modo in cui si intrecciano – consapevolmente o meno – con un sostrato musicale spiccatamente mediterraneo (non a caso, Bar Mediterraneo dei Nu Genea avrebbe ricollegato molti di questi punti). Ma, come in tutti i panorami in fermento, ciascuno ha il proprio tocco inconfondibile: ci sono le produzioni più ruvide con bassi particolarmente pugnaci di Mystic Jungle (peraltro titolare di Periodica Records, dove peraltro molta di questa scena ha trovato casa) e Whodamanny; ci sono le trame ambiziose e visionarie di Bassolino che spingono sulle progressioni jazz e le strutture prog; c’è la proposta street pop di Masamasa che riesce a sapere di funk campano senza farsi inglobare da un genere ormai più grande di qualsiasi singolo artista.
Ma Napoli non è l’unico epicentro funk italiano. I revival italodisco e synth-pop che hanno colpito a ondate le nostre coste ci hanno dato molto altro. Non solo nelle radici di chi quelle tradizioni vuole rivisitare nell’elettronica, come Bruno Belissimo, ma anche chi infonde di funk la sua canzone pop, come Tatum Rush e Popa, artista peraltro prodotta dal citato Scognamiglio: tre nomi tra l’altro legati anagraficamente all’estero, a riprova che il funk italiano è un dialetto musicale più universale di altri che si vorrebbero “internazionali”. Anche, senz’altro, per la componente principalmente strumentale della sua proposta. Facile pensare allora ai Calibro 35, che il funk lo estraggono dalla lezione dei grandi maestri della colonna sonora (Piccioni, Umiliani, Morricone), spesso e volentieri immischiatisi a loro volta con quel linguaggio sonoro: riannodare il rapporto con quella storia di musica cinematica non è tanto culto del passato quanto ricontestualizzazione di una musica che era funk dalla testa ai piedi, dove ogni inciso strumentale si rivela una riserva ritmica e percussiva ricchissima, come se ciascuna nota di Clavinet fosse un colpo di pistola e un’istruzione per il corpo. Più funk di così non si può.
Certamente, lo studio del passato è fondamentale per il modo in cui il funk continua a vivere nel presente. L’abbiamo detto per il sottogenere napoletano, ma vale a maggior ragione per l’afrobeat, una tradizione musicale funk fino dalla sua origine. Questo particolare e fruttuoso strabismo temporale si vede perfino nel claim della Analog Africa, etichetta tedesca che oggi si premura di ripubblicare tesori perduti del genere: “il futuro della musica è avvenuto decenni fa”. Suonare come negli anni ‘70 è un modo per far ripartire quel futuro interrotto. Così Londra è divenuta centro di una nuova diaspora afrobeat, dove convergono storie provenienti dall’Africa Occidentale, dalla costa sudamericana e dai Caraibi, non per celebrare minuziosamente la gloria passata, ma per scrivere un futuro inclusivo che di fatto è già presente. Un collettivo come gli Ibibio Sound Machine ne è una testimonianza musicale, anche se la predisposizione per il funk di tutta la nuova generazione di musicisti si può notare anche in artisti non afrodiscendenti come Emma-Jean Thackray, già da tempo e a maggior ragione da quando si è imbevuta delle lezioni di Sun Ra e Roy Ayers. E mentre la scena jazz londinese – come abbiamo detto – ha trovato sponde afrobeat per dare spinte ritmiche a Ezra Collective o Sons of Kemet, la filiera jazz e funk continua a sfornare nuove promesse del ritmo, come le band Nubiyan Twist e Kokoroko. Certo, la mescolanza di generi nelle proposte di questi odierni interpreti dell’afrobeat e afro-jazz (psichedelia e spiritualismo su tutti) potrebbe far perdere di vista il nostro punto di partenza: ma il funk ha il gusto di un ingrediente inconfondibile, che anche se usato con moderazione dentro una ricetta psicoattiva finisce per emergere solleticando le giuste papille (senti War Dance, se non ci credi, o prova a mettere su tutto il disco-remix dei Kokoroko).
Il funk, in questo senso, è una fenomenale lente attraverso cui possiamo leggere il presente. Per esempio, la nostra ossessione per le “riscoperte”. In un paradossale remake degli anni ‘70, quando la fascinazione per Fela Kuti da parte di David Byrne sfociò nell’art-pop funkeggiante di Remain In Light contribuendo di conseguenza all’influenza funk e afrocaraibica di tutta una parte della scena britannica post-punk – che, come ha dimostrato l’eccellente 1982 degli A Certain Ratio, è viva e lotta insieme a noi – anche oggi il ritorno afrobeat ispira proposte artistiche similmente mutanti e spigolose: dagli Yard Act in UK agli americani Algiers, che non a caso nell’ultimo album hanno ospitato Mark Stewart dei Pop Group. E non è nemmeno la prima volta che si presenta questo giro transatlantico di influenze, se si pensa alla partecipazione degli Antibalas ai fati in dischi dei Foals e TV On The Radio negli anni Zero. Nulla si inventa, tutto si remixa, possibilmente in versione funk.
Anche riscrivere la discendenza dal soul e dal funk alla disco è una forma di remix storico, al quale prendono parte da dieci anni a questa parte i Jungle: li cito non solo perché la loro musica è una forma di conservazione in natura del genere, ma perché il loro secondo album (For Ever) porta la firma di un produttore che a suo modo ha condensato nelle sue esperienze tutto quello che abbiamo detto sul funk in UK, dall’afrobeat al pop new wave, e molto altro ancora, un’enciclopedia della musica classica nera (come avrebbe detto Yussef Dayes, altro che talvolta si balocca con il funk). Mi riferisco a Inflo, che specie nei suoi Sault ha sintetizzato 6 decenni di musica afroamericana, dal gospel alla house, restituendo fin dal primo album l’essenza ritmica e corporea del funk. Nelle mani del londinese il funk è il codice con il quale si scrivono le istruzioni di ogni base ritmica, e che talvolta prende il sopravvento: in un brano come I Just Want To Dance si parte con una specie di Amen break, si prosegue in un club e si finisce con una batucada. Perché il funk – vedremo presto – non ha confini.
Come dicevamo, a ricercare il funk del presente (e del futuro) si perde facilmente la strada: la sua influenza è talmente forte e presente, che i suoi percorsi possono portarci dall’ultimo album dei Black Keys intitolato come una strepitosa e leggendaria band funk degli anni ‘70 (gli Ohio Players) al clash di influenze degli australiani Hiatus Kaiyote, che in brani come Chivalry Is Not Dead sembrano aprire portali spazio-temporali da cui si intravede uno spicchio di futuro. Ma il funk conduce anche molto lontano, su direttrici che puntano molto a Oriente, verso le coste del Mediterraneo Orientale, i monti Zagros e il Golfo Persico. Una delle forme più vivaci e fruttuose del funk contemporaneo, infatti, mescola questa tradizione alle forme musicali medio-orientali. I turco-olandesi Altın Gün con il loro revival a distanza di anatolian rock, e i Sababa 5 ispirati dal beat israeliano e dalla radio arabe puntellano ulteriormente due verità che già avevamo incontrato parlando di Napoli funk: uno, le tradizioni musicali del bacino mediterraneo muoiono dalla voglia di comunicare tra loro dentro una prospettiva psichedelica e ipnotica; e due, il tentativo di cavalcare le ondate pop, funk e disco degli anni ‘60 e ‘70 nei paesi non anglosassoni ha acceso la creatività delle generazioni a venire, lasciando una scintilla funk.
La potenza del funk è tale che la sua influenza arriva ancora più a Est. Gli olandesi YĪN YĪN, per esempio, dal 2019 a oggi hanno fatto il giro dell’Asia orientale (dalla Thailandia alla Cina di cui hanno ripreso lo strumento a corda guzheng, e più recentemente il Giappone) come se il loro obiettivo fosse dimostrare che la scala pentatonica maggiore del funk funziona a tutte le latitudini, da Maastricht a Tokyo – e il bello è che è veramente così! Se il funk, insomma, immagina un futuro andando alla più fondamentale e ancestrale struttura della musica, non può stupire che sia usato come centro nevralgico per condensare tutta una serie di influenze lontanissime: la musica dei Khruangbin, che sintetizza dentro una semplice dinamica basso-chitarra-batteria una serie di influenze che vanno da Bangkok al Messico, aspira proprio a questa universalità. Nel nostro piccolo italiano, anche I Gini Paoli, che tengono insieme penisola anatolica e cumbia, melodia italiana e psych-rock, sembrano dirci che il funk non conosce limiti.
Del resto – ed ecco che prendiamo un’altra deviazione – oggi puoi sentire il funk dentro alcuni dei più interessanti esempi di pop cosmopolita in circolazione, da quello asciutto di Christine and the Queens a quello massimalista di Priya Ragu. Ma in qualche modo dobbiamo riportare questo viaggio al punto di partenza. Quindi, cosa c’è nel funk americano di oggi? Tutto quello che abbiamo raccontato, e molto altro. Intanto per cominciare, negli USA il genere è rimasto centrale nel curriculum del pop afroamericano, e non è mai uscito dal lessico popolare. Così, quando Lizzo o Janelle Monáe hanno voluto trovare una via midwestern al discorso di liberazione carnale e di genere della loro musica, avevano alle spalle le lezioni di Prince, ma anche di pionieristiche funky women come Chaka Khan e Patti LaBelle. Nella sua terra natìa il funk ha continuato a essere coltivato e non ha smesso di crescere, conservando o trovando nuovo spazio anche per i nuovi studenti della vecchia scuola, come i Dap-Kings che hanno accompagnato per tre lustri Sharon Jones e hanno partecipato a quella che forse ha la traccia funk con più ascolti nell’era dello streaming, cioè Uptown Funk di Mark Ronson e Bruno Mars. L’esperienza della Daptone Records si è intrecciata con molte storie funk americane, alcune già citate (gli Antibalas) e altre di grande influenza come i progetti di Leon Michels, ex Dap-King: con i suoi El Michels Affair o dietro il banco mixer per superstar come Kid Cudi o Jay-Z e dietro mega-hit come I Need A dollar, il produttore e musicista ha incarnato nel profondo il credo di James Brown, con refrain strumentali percussive, bassi spietati, e aggiungendovi il proprio gusto cinematografico che fa di ogni sua traccia un momento immediatamente riconoscibile, tanto vintage nel gusto, quanto postmoderna nella filosofia.
Dai raffinati Lettuce all’energico Boulevards passando per il nuovo new jack swing di Moniquea, nuovi progetti continuano a portare avanti i comandamenti del genere e le sue diverse incarnazioni. Ma, combinando con sapienza tradizione e innovazione, alcuni artisti hanno saputo raggiungere anche grandi platee, tenendo vivo non solo il buon nome del funk ma anche il suo legame con il pubblico. Penso ai Vulfpeck che riempiono il Madison Square Garden con una canzone su una paperella, o a Thundercat che grazie al suo DNA funk (incontrato grazie alla musica del videogame Sonic, per sua ammissione) ha coniato un tipo di fusion energico e vibrante, psichedelica e assurda, totalmente libera. Insomma, funk.
Uno dei più grandi sponsor del genere, in questo senso, è Anderson .Paak, che almeno dai tempi di Malibu si è imposto come uno degli artisti funk più in vista al mondo e che ha costruito uno status di superstar sulle spalle di uno stile altrimenti snobbato da molti altri colleghi, intenti piuttosto a seguire il trend del momento. Sebbene la sua musica non possa essere definita solo con l’etichetta di uno stile, l’esperienza viscerale e l’implacabilità ritmica di canzoni come Come Down (specialmente se sentita dal vivo) non può trovare definizioni migliori: è funk. Non solo, lungo la sua carriera solista (ma anche con Knxwledge e nei Silk Sonic con Bruno Mars) ha impresso il proprio nome sul tipo di funk indolente e soleggiato dei suoi brani, uno slacker funk che alterna sprazzi di energia gioiosa e brutale alle vibe più rilassate dell’intera contea di Oxnard. Ma di fatto, per tutti gli anni Dieci i migliori artisti di base in California hanno corteggiato il genere, richiamandosi anche direttamente ai suoi maestri: da Awaken, My Love! di Childish Gambino, che si rifà ai Parliament-Funkadelic nell’estetica e nel sound, alla ribollente After The Storm di Kali Uchis con Tyler, The Creator e Bootsy Collins, che con i Parliament-Funkadelic (oltre a un milione di altri artisti, compreso James Brown e i contemporanei Silk Sonic) ci ha suonato. L’album Igor di Tyler, poi, abbraccia il funk nella sua versione più disciolta e lisergica quasi in ogni traccia, decretando universalmente il ritorno del genere tra le priorità estetiche americane.
Anche se non lo vedi in cima alle classifiche e nei titoloni, il funk sta continuando a lasciare il proprio solco. O, per dirla in inglese, groove.