Testo di Federico Pucci
Quando, qualche settimana fa, abbiamo parlato della nuova generazione di artisti di pop elettronico alternativo italiano, è stato necessario porre un’importante premessa, cioè che il nostro Paese non si era scollegato del tutto da una cultura i cui centri nevralgici restavano comunque fuori dai nostri confini, e che una serie di artisti e di eventi avevano mantenuto un contatto capace di ispirare, negli ultimi 7-8 anni, una leva di talenti.
Se parliamo di jazz, il discorso vale a maggior ragione: i Fresu e le Marcotulli, tanto per citarne due a caso, non sono mancati, così come le centinaia di scuole diffuse sul territorio, gli appuntamenti di scala più o meno grande, capaci non solo di dare uno spazio per le esibizioni ma di trovare un terreno per le contaminazioni. Così, ci troviamo nel 2024 con una generazione di musicisti italiani nati dagli anni ‘80 in avanti che ci rendono fieri della scena jazz italiana. Questi sono solo alcuni di loro.
Come si è detto parlando della nuova wave di jazz inglese e americano, anche in questo caso bisogna considerare i confini del genere non solo in base ai canoni stabiliti dalla tradizione ma agli spazi che questi artisti occupano e hanno occupato. Pensare alle traiettorie e alle intersezioni del jazz dell’ultimo decennio in Italia senza citare i C’Mon Tigre, quindi, che questi palchi e questi spazi li hanno calcati in tutto il mondo dal 2014 in avanti, sarebbe estremamente fuori luogo, per quanto inserire il collettivo di musicisti esclusivamente nella categoria jazz potrebbe sembrare fuorviante. Ma, come abbiamo detto, il jazz non è solo un insieme di regole, ma una comunità di musicisti e di pubblico che in alcune di queste norme si riconosce e che altre norme accetta di infrangerle.
Jazz è anche un disco fondamentalmente post-rock come Nerovivo di Evita Polidoro, batterista, compositrice e cantante che ha fatto dei molteplici interessi verso rock alternativo ed elettronica una parte integrante della sua identità artistica, al pari della formazione accademica che ha alle spalle. Jazz è anche il lavoro sulla matrice musicale primigenia dell’hip-hop degli Studio Murena, che nei tre album (Crunchy Bites, Studio Murena e WadiruM) hanno messo a punto una proposta che ambisce – e ci riesce! – a vivere in contesti diversi con uguale credibilità, come oltreconfine si è visto nelle esperienze di un Alfa Mist o dei BADBADNOTGOOD. Così si può leggere, ad esempio, la stessa crescita organica della formazione da trio di colleghi di conservatorio all’attuale composizione a sestetto con l’MC Lorenzo Carminati.
Quel che esalta della proposta del nuovo jazz italiano, di fatto, è la coesistenza tra un’intenzione creativa originale e un desiderio di comunicare oltre la nicchia, in modo trasversale. Non in virtù della fusione in sé degli stili a monte, ma in virtù della convivenza di gusti eclettici in un pubblico sempre meno entusiasta delle omologazioni mainstream. Il jazz è un incontro. Basta pensare al progetto 72-HOUR POST FIGHT, che ha unito due musicisti-producer come Fight Pausa e Palazzi D’Oriente con il batterista Andrea Dissimile e il sassofonista Adalberto Valsecchi, premessa per la cospirazione di cose più grandi e visionarie come il quartetto ha dimostrato da cinque anni a questa parte, trovando una strada per colpire al fegato con una commistione di stili che – in mani meno esperte – propenderebbe facilmente la strada dell’estetismo sterile.
La larghezza di campo del nuovo jazz italiano è evidente quando a partire dagli stessi ingredienti di partenza si arriva a un risultato del tutto originale: hip-hop ed elettronica sono essenziali, per esempio, anche nella musica Alsogood, come dimostra il suo recente album Elsewhere, eppure l’unicità del suo stile, così affine a certe sensibilità metropolitane e trip-hop che avvolgono di nebbia le produzioni, lo rende assolutamente distinguibile rispetto alle due band citate sopra. Merito non solo delle idee del singolo compositore, ma della capacità di farle interagire con visioni altrui e di andare oltre: prima di questo disco, infatti, il musicista calabrese al secolo Francesco Lo Giudice aveva messo insieme alcuni degli stessi elementi nel trio Figùra, con un altro nome importante delle contaminazioni jazz (e delle produzioni pop fatte bene) come Emanuele Triglia. Mettere in successione il disco del trio A Place To Be del 2018 ed Elsewhere o Seven Beats I Forgot di Triglia del 2023 permette di vedere un cammino, una crescita che non consiste solo nell’adozione di un trend effimero dopo l’altro, come capita troppo spesso alle grandi produzioni fuori dal jazz, ma che è qualcosa di maturato tanto nella testa del singolo quanto nella pratica del gruppo.
Se c’è una caratteristica del jazz (italiano e non solo) che lo distingue dal resto della scena musicale contemporanea è infatti la partecipazione collettiva, la consapevolezza della forza (creativa) che deriva dall’unione di menti diverse. Se si toglie di mezzo il culto della personalità che frulla intorno al pop, al rock e all’hip-hop odierni, si capisce che la strada da fare insieme è artisticamente più lunga e può arrivare a tappe più interessanti. In questo senso potremmo dire che il jazz sta all’attuale scenario industriale musicale come la scena indipendente stava alla discografia degli anni ‘80 e ‘90. Un altro esempio di espansione stilistica attraverso la collaborazione si può vedere nel lavoro del tastierista Giulio Stermieri Yabai: il tocco nebuloso eppure dinamico del suo quartetto (si senta Crops and Sports) si espande e allarga gli orizzonti con l’aggiunta di Adele Altro (Any Other) alla voce nell’album Up For Grabs, un disco che fortunatamente sfugge continuamente alle categorizzazioni, abbattendo muri tra generi in ricerca di un’idea di canzone psicanalitica, viscerale, onirica.
“Gli stili di oggi non nascono necessariamente da un’esperienza innata, ma da un interesse, da un’attrazione personale e rispettosa, si formano da collisioni che scavalcano la storia e la geografia. Per questo la fluidità dei generi storico-musicali mi è sempre sembrata una cosa spontanea”, diceva Francesca Gaza in un’intervista a Musica Jazz. Questa mentalità non solo informa il progetto della musicista e cantante italo-tedesca Lilac for People (nome del suo collettivo e del primo album del 2019) ma un intero panorama di artisti che dall’esperienza accademica – che accomuna tutti o quasi – non sono usciti con un rigore fondamentalista, ma piuttosto con una curiosità e una gran voglia di sperimentare insieme.
Questo porta – come è tradizione nel jazz – a una moltiplicazione di progetti ed esperienze. Prendiamo ad esempio Camilla Battaglia, che con la voce e l’elettronica ha realizzato alcune delle più intriganti uscite della musica d’avanguardia dell’ultimo periodo: da una parte con dischi fondamentalmente “a solo” come Perpetual Possibility del 2022, dall’altra con sforzi collettivi come Càlór del 2023 con tre musicisti dalla scena berlinese, o il coevo A Song Has A Thousand Years nel duo Hoodya con la bassista Rosa Brunello, dove convivono inediti e rivisitazioni di canzoni pop e rock da Björk a Fiona Apple, da Dido agli Skunk Anansie (una pratica che più jazz non si può). E Brunello, a sua volta, è responsabile di alcune uscite memorabili, come Sounds Like Freedom con un insieme di musicisti fenomenali, tra cui la trombettista di base in UK Yazz Ahmed e il batterista Marco Frattini.
A pubblicare quel disco fu la label lonsangelina Domanda Music che, come il nome rivela, ha una testa e un cuore molto italiani dal momento. A fondarla è stato un altro dei protagonisti della nuova stagione jazz tricolore: Tommaso Cappellato. A sua volta il batterista, produttore e DJ residente a L.A. ha riversato i suoi interessi e le sue sensibilità in progetti di diversa identità, dimostrando che il jazz è sempre un dialogo. Ad accomunare i lavori di Cappellato è un gusto spiccato per le qualità più spirituali e cosmiche del suono, dal progetto Astral Travel (che peraltro ha ospitato la già citata Camilla Battaglia, tra gli altri) con dischi come il visionario If You Say You are From This Planet, Why do You Treat Like You Do?, ispirato da Sun Ra e improntato alle tecniche d’improvvisazione; al Collettivo Immaginario, che appena pochi giorni fa ha pubblicato una nuova traccia intitolata Alberoni con un approccio armonico-melodico debitore della library music italiana (Nora Orlandi e Piero Piccioni sono tra le fonti esplicitamente citate).
Di voci eccellenti e dischi conturbanti il jazz italiano recente non ha lesinato: MORA della pianista, tastierista e cantante Miriam Fornari, realizzato con la collaborazione del fratello Ruggero alla chitarra e della già citata Evita Polidoro alla batteria e drum machine (oltre al bassista Joe Rehmer), è un esempio efficace di conflagrazione di stili jazz e ambient al servizio di un concept sul sogno. Un talento che si sta meritatamente facendo largo è quello di RBSN (Alessandro Rabesani), chitarrista e cantante che nel suo esordio Stranger Days ha dimostrato di saper dominare il linguaggio armonico del jazz sul quale si è formato con il nu soul atmosferico ed elegiaco della sua scrittura e produzione. Negli ultimi mesi le collaborazioni con il già citato Emanuele Triglia e il genio della canzone indie e funk Marco Castello non hanno fatto altro che dimostrare una capacità (sua e del jazz) di penetrare nei discorsi ed elevarli.
Se parliamo di contaminazioni, la (parte più interessante della) scena musicale odierna è semplicemente ricolma di artisti formati sul jazz o profondamente influenzati dalla sua storia, e che grazie a queste premesse hanno creato alcuni dei lavori ibridi più eccitanti in circolazione. Kuni di LNDFK è un lavoro (preziosissimo, peraltro) che senza il linguaggio ritmico e timbrico del jazz mancherebbe di un organo vitale, quello che spinge il flusso sanguigno delle batterie e dei bassi alla Thundercat dentro le spire elettroniche e le melodie soul dell’artista italo-tunisina. Soul e jazz (e funk, e canzone pop anni ‘60) sono centrali anche nella genesi della musica dei Delicatoni. La perizia nel groove della formazione non entra in contraddizione con il talento strumentale sopraffino, ma anzi lo esalta, come in qualsiasi formazione che faccia delle jam una parte essenziale della propria scrittura: una ragione in più per comprendere quanto l’impatto del jazz (che è nel curriculum di parte del gruppo) abbia un ruolo essenziale nel formare prima di tutto le teste di musicisti che si avventurano anche altrove.
L’impatto del jazz è tangibile anche in artisti che si allontanano ulteriormente dalla matrice: come nel caso di Coca Puma, la cui formazione è stata nu-jazz ma che oggi si presenta con un lavoro come Panorama Olivia che sembra tutto tranne che un esordio, vista la maturazione di molteplici insegnamenti musicali (elettronica, post-rock, nu soul, ambient) che ne fanno una voce esemplare di come la musica italiana raggiunga i famigerati “livelli internazionali” quando non si inscatola in una comoda e asfissiante categorizzazione. Questa è la stoffa degli artisti che hanno qualcosa di importante e originale da dare: la si vede facilmente anche sopra Venerus, la cui alimentazione sonora a base di jazz è evidente fin dai primi lavori ma che forse è venuta fuori ancora più chiaramente nel gergo pianistico della sua performance a solo voce e piano per Jazz:Re:Found del 2021 o nella collaborazione a suon di dub con i Casino Royale.
Naturalmente non viene meno anche il lato sperimentale: A Page Is Turned a Mountain Collapses a Guy Leaves (2023) del trio McCorman composto dal sassofonista Francesco Panconesi (peraltro nei succitati Lilac For People), dal chitarrista Stefano Calderano e dal multistrumentista Nicholas Remondino, è un esempio di come mescolare elettrico e acustico non solo per il gusto di farlo, ma per proporre al pubblico un suono sorprendente – in questo caso un cataclisma aspro e notturno, industriale eppure organico, al quale è impossibile restare indifferenti.
Il jazz, si diceva, è un campo aperto. E sopra questo campo alcune partite sono iniziate decenni fa: per esempio, i milanesi Addict Ameba giocano con gran stile sulle traiettorie di un afrobeat in grande spolvero, come dimostra anche la collaborazione con l’artista anglo-nigeriano dello spoken word Joshua Idehen (già collaboratore dei The Comet Is Coming) nel loro recentissimo album Caosmosi; ma nella loro musica non c’è solo la direzione nel quale vogliono andare, ma anche il background dal quale provengono, una Casoretto multietnica che si sente dentro le influenze afro-cubane, sudamericane e sahariane che, unite in un tripudio di fiati sbarazzini e chitarre pizzicate, rendono il loro suono estremamente funky.
Il jazz italiano, nelle sue molteplici e multiformi incarnazioni di cui abbiamo toccato qui soltanto una minima parte, non avrà mai i numeri strepitosi di altri generi. Ma appare sempre più evidente che esista un appeal commerciale nella proposta di alcuni di questi artisti: le major discografiche hanno preso appunti e hanno messo sotto contratto alcuni dei nomi citati (Studio Murena e Alsogood dentro la famiglia Universal Music Italia, per esempio). Recentissima è la notizia che anche la band afrobeat e jazz-funk Il Mago Del Gelato pubblicherà prossimamente per una multinazionale, nello specifico Sony Music Italia attraverso la label Dischi Numero Uno.
Un interesse che non deve certo guidare il nostro gusto e il nostro senso critico nel giudicare questo o quell’artista, ma che dimostra il potenziale di questa new wave del jazz italiano di imporsi in un panorama musicale omogeneo e affollatissimo, con un’arma segreta: la voglia di stupire, e di farlo insieme.