Testo di Federico Pucci.
Il sito Cult Sounds traduce in lingua inglese e adatta in digitale i contenuti di Kultsounds, libro dello studioso tedesco Immanuel Brockhaus che traccia la storia di alcuni suoni essenziali per capire la musica popolare dal 1960 alla metà degli anni Dieci. In questa versione ridotta del suo lavoro, Brockhaus raccoglie esempi di alcuni suoni per cui l’aggettivo “iconico” non è sprecato: auto-tune; l’orchestra hit; il synth-bass; il canto in falsetto. Tra questi capitoli, uno intero è dedicato ad uno strumento specifico, anzi a un suo preset: E. PIANO 1, il preset di fabbrica 11 del sintetizzatore Yamaha DX7. Bastano un paio di secondi, pescati a caso dall’infinita libreria video dei nerd delle tastiere su YouTube, per sapere subito di cosa stiamo parlando. Quel pianoforte elettrico è – effettivamente – il suono degli anni ‘80.
Lo hai sentito sotto alcune delle più memorabili prestazioni vocali di Whitney Houston nel suo omonimo album del 1985 (ma ancora 7 anni dopo), o mentre raddoppiava la chitarra di Nile Rodgers in Notorious dei Duran Duran; magari lo associ a suoni nostrani, come quelli di Una Storia importante di Ramazzotti o Giulio Cesare di Venditti o alla sigla di Twin Peaks.
Ma ridurre la storia della DX7 a quella di questo suono sarebbe riduttivo: poco dopo la sua messa in vendita nell’estate 1983, il synth di casa Yamaha che incorporava la “nuova” generazione del suono tramite modulazione di frequenza aveva già conquistato il pop, il soul e il rock. Produttori come Jimmy Jam e tastieristi come Roy Bittan (Springsteen) abbracciarono in modo estremo le potenzialità di questo nuovo strumento. Il quale, tra le altre cose, prometteva: costo ragionevole (meno di 5mila dollari, circa 3 milioni di lire dell’epoca); dimensioni e peso gestibili; eccellente “action” dei tasti per restituire dinamica al tocco; un controllo dell’inviluppo (la forma del suono dall’inizio alla fine) senza precedenti; integrazione MIDI. Ma al di là dei tecnicismi più sottili, tre specifiche lo rendevano il migliore amico dei produttori: il realismo dei suoni generati senza campionamento, puramente manipolando le onde; il fatto che molti di questi suoni erano preimpostati come preset; la capacità di sedere perfettamente nel mix, cioè farsi notare anche in un arrangiamento affollato senza disturbare altre parti.
Chiusa la parentesi astrusa, ecco spiegato perché la DX7 si sente ovunque tra ‘84 e ‘88: nei due pianoforti sovrapposti di Everybody Wants To Rule The World e nell’arpa che pizzica l’hook di Smalltown Boy; nel basso di Take On Me e in tutto l’accompagnamento armonico e melodico di What’s Love Got To Do With It; negli ottoni digitali della musica di Top Gun nel famigerato koto di When Doves Cry o nel riff industrial di People Are People. Oltre a diverse hit italodisco.
Megan Lavengood della George Mason University in Virginia ha calcolato che nel 1986 il 61% delle canzoni arrivate al primo posto nelle classifiche americane pop (Hot 100), country e R&B conteneva un DX7. Una specie di monocultura targata Yamaha. Qualche esempio: Never Gonna Give You Up di Rick Astley; Man In The Mirror e Dirty Diana di Michael Jackson; On My Own di Patti LaBelle. Anche scendendo dal podio, nell’86 il synth aveva saturato il mercato: dal basso dei New Order a un’intera sezione ritmica di Janet Jackson.
Ma l’arrivo di nuove tecnologie nel campo del sampling e la stessa diffusione pervasiva dei preset della DX7 nell’intero panorama industriale fecero invecchiare lo strumento precocemente, con un effetto “inflazione” causato dalla stessa feature che ne aveva decretato il successo. Intanto, però, il prezzo accessibile di questa tastiera aveva costretto la concorrenza ad abbassare i prezzi, aprendo una fase di “democratizzazione” della musica prodotta con synth, secondo nientemeno che Robert Moog.
Ma anche nell’era della sua progressiva irrilevanza, la DX7 ha avuto importanti sostenitori: Brian Eno, per esempio, che l’ha sempre usata a dispetto della difficoltà di programmazione. L’inglese ha continuato ad apprezzare le infinite possibilità di generazione dei suoni, approfittando anche di alcuni difetti degli oscillatori (o operatori) del primo modello, che gli consentivano di ottenere suoni non solo originali ma con forme di suono non ripetitive. Le patch di Eno sono responsabili in parte del successo enorme di album come The Joshua Tree degli U2 (1987) – è una DX7 accuratamente programmata a generare quel suono di organo celestiale e alieno all’inizio di Where The Streets Have No Name. E una DX7 programmata come si deve è anche presente in quasi ogni traccia di Outside, l’album del 1995 che lo riportò a lavorare con David Bowie.
Tra gli artisti che hanno usato questo strumento oltre le sue possibilità di fabbrica, possiamo citare Aphex Twin, che ha contorto un preset di violini per il suo album di debutto, registrato in economia – condizione ideale per la DX7. O Sun Ra, che in Retrospect l’utilizzava per evocare il “potenziale dell’impossibile dell’essere umano”: un concetto che ben si presta a uno strumento capace di imitare piuttosto realisticamente un suono “reale”, ma anche di crearne infiniti “irreali”. E di fatto il jazz, già negli anni ‘80, non aveva perso tempo a mettere le mani su questo giocattolo: tra i suoi estimatori Herbie Hancock, Roy Ayers (i tastieristi di), e la cantante e pianista crossover pop-funk-jazz Patrice Rushen – attenzione, sentire il suo album dell’86 Watch Out! potrebbe risvegliare ricordi in chi ama Blood Orange, ma tanto torneremo presto da Devonté.
Ma a un certo punto, nella cultura pop, qualsiasi cadavere torna a galla: la DX7 non è stata da meno. Grazie alla tecnologia digitale, i suoi suoni sono riemersi più spesso sotto forma di sample o emulatori: senza neppure bisogno di rispolverare le vecchie macchine con un atto di autentico revivalismo, il futuro immaginato nel passato poteva ripresentarsi nella sua forma fantasmatica, un suono puro e (se possibile) ancora più incorporeo dell’originale. Forse non è un caso che sia Veridis Quo dall’album Discovery del 2001 una delle prime tracce di alto rilievo a rispolverare il vecchio parco suoni Yamaha: tra i molti strumenti d’epoca riesumati, i Daft Punk hanno pescato fiati e organo della DX7 per eseguire la melodia di accompagnamento alla traccia. Quel brano e l’intero progetto – anni dopo, con altri mezzi, anche Random Access Memories – aveva il preciso intento di far rivivere un’età lontana della musica, far ripartire in modo velleitario (ma estremamente divertente) un discorso che si era interrotto da qualche parte alla fine del secolo. Una prospettiva simile, ma ancora più pienamente nostalgica, la nutrì il connazionale Kavinsky, che ha creato il suo primo EP Teddy Boy interamente con una DX7. Domanda: con quale anno in sovraimpressione si apre il video del singolo Testarossa Autodrive? Esatto: 1986.
A questo punto, che si tratti di puro suono scorporato o di autentico ripescaggio non fa differenza: il suono inconfondibile dell’E. PIANO 1 in Versace on the Floor di Bruno Mars contribuisce alla filosofia di tutto l’album 24K Magic (2016), un parco giochi luminoso dove si può fare cosplay di un passato estremamente idealizzato, a uso e beneficio di un enorme pubblico mainstream ugualmente spaventato dal presente. E questo funziona a prescindere dal fatto che questo suono sia stato ottenuto tramite software o con uno Yamaha in plastica e circuiti.
Ma, fortunatamente, il ritorno di questo strumento, dei suoi suoni, delle sue capacità non si è limitato a questi giochetti temporali. E anche se è impossibile eliminare del tutto la patina depositata dal tempo su certi preset, molti artisti ci hanno dimostrato che questo tesoro di suoni ha qualcosa in più da dare che non farci pensare ai bei tempi andati. In Almeda di Solange i pianoforti spettrali che punteggiano armonia e ritmo derivano proprio dalla DX7 (o più probabilmente da un software che lo imita, specifica che non ripeteremo da qui in avanti), ma il senso della traccia non ha nulla a che vedere con il recupero degli anni ‘80: anzi, il tono sfacciato e libero e le reminiscenze trap collocano saldamente negli anni Dieci questo brano. E del resto ci sono anni ‘80 e anni ‘80: Plainsong dei Cure usa un normalissimo preset di questa ubiqua tastiera, ma riesce a non avere quasi nulla in comune con le canzoni dello stesso decennio.
Una DX7 è anche al centro di un album come Boo Boo di Toro Y Moi, nel quale l’approccio retromaniaco alla timbrica è associato a un opposto interesse per la contaminazione creativa e originale dei linguaggi musicali: quindi, se Labyrinth parte con l’inconfondibile scampanellare dell’electric piano di Twin Peaks, il concept, la ritmica, il trattamento della voce e lo sviluppo armonico del brano puntavano in una direzione decisamente più adatta all’anno d’uscita (2017), cioè un pop ipnagogico fatto di stonature controllate, impercettibili fluttuazioni di tempo e tutto quello che associamo all’esperienza della vita nell’eterno presente dell’era digitale (un labirinto, appunto). Ancora più evidente l’interesse a sperimentare con il suono nel singolo Girl Like You, dove i cori sintetici piazzati sullo sfondo contribuiscono all’atmosfera fantasmatica e decisamente inquietante del brano, che molto deve al trattamento del suono da parte di Oneohtrix Point Never, ispirazione esplicita del progetto. Daniel Lopatin peraltro avrebbe messo la sua esperienza a servizio di uno dei più importanti dischi pop del decennio, After Hours di The Weeknd. E Abel è proprio un genere di artista che si è circondato di suoni esplicitamente vintage fin dagli esordi. Tutto il progetto Starboy è una caccia al tesoro dei vecchi synth: e nel mix di I Feel It Coming con i succitati Daft Punk si può trovare facilmente un pezzo di DX7, se identifichiamo correttamente il tipico suono di ottone morbido ed evanescente che sottolinea la melodia del ritornello con un giro di accordi. Anche se negli ultimi anni il Roland Juno-60 (altro strumento in grande spolvero) è diventato il synth simbolo del canadese, il buon vecchio Yamaha continua a lavorare dietro le quinte per contribuire al pastiche temporale di The Weeknd.
Nel caso di questa e molte popstar, richiamarsi al passato è anche un modo per riproporsi come ideali successori – bisogna menzionare che un demo dell’ultimo album di Ariana Grande si intitola DX7? – Ma se parliamo di nostalgia, quella fatta bene, quella che va piuttosto letta come una cavalleresca sfida al passato per dimostrare di aver imparato la lezione, allora non c’è progetto recente che valga la pena segnalare più dell’omonimo debutto di Fabiana Palladino. La musicista e cantante inglese (figlia d’arte del super bassista Pino) si è alternata fra una Juno-106 e una DX7 per creare i suoni così perfettamente incapsulati nel passato del suo album d’esordio: in I Can’t Dream Anymore non solo si sentono i pad Yamaha, ma la lezione di un contemporaneo che ha fatto giochi di prestigio proprio con questo e altri synth.
Mi riferisco a Tame Impala, che nei suoi arrangiamenti sovrappone in modo maniacale e accuratissimo decine di layer strumentali diversi fino a ottenere per accumulazione un suono che non esiste. Ma le tracce delle sue preferenze si possono ritrovare: come il solito piano elettrico scampanellante della DX7 che carezza la parte bassa delle tue orecchie in The Less I Know The Better. Un simile gusto post-moderno per l’accostamento trascende dalle logiche di debito o credito verso altre epoche e si concentra sul puro risultato emotivo della giustapposizione. Un altro che arrangia in questo modo è Sampha. La sua Indecision, tanto per fare un esempio, tiene lungo tutta la traccia un tappeto suonato sulla DX7, e sopra questo incunea una linea ritmica di pianoforte suonato con molto riverbero naturale, quasi a sottolineare la coesistenza di spazi reali e virtuali: non c’è gerarchia negli strumenti, né moda che tenga; è solo un discorso epidermico, al servizio di un messaggio più ampio. Lo stesso si potrebbe dire di Blood Orange, che in Wish usa i cori disumani della DX7 per stendere una coltre elettrica sopra una canzone che sembra estratta da un sogno dove batteria krautrock, chitarre dreampop e melodie soul invitano a ignorare qualsiasi coordinata (di tempo, di genere, di stile).
Un progetto che fa un simile lavoro di assimilazione di generi differenti è IGOR di Tyler, The Creator: è significativo che una delle tracce meno smaccatamente vintage del progetto, cioè I Think, abbia una presenza massiccia della nostra tastiera, che con fiati digitali e i soliti pianoforti elettrici tiene in piedi la canzone non meno del suo groove.
Del resto, tra produttori hip-hop come Erick The Architect e band sperimentali come From Indian Lakes che continuano a utilizzare la DX7 senza alcun esplicito intento retromaniaco, non deve stupire che esistano ancora artisti interessati alla funzione di base di qualsiasi sintetizzatore: sintetizzare, cioè creare nuovo suono. John Frusciante ha usato quasi esclusivamente la DX7 nel suo album elettronico del 2020 Maya, modellando per ogni traccia almeno una dozzina di suoni originali, ma comunque piuttosto riconducibili allo strumento, come si nota in Brand E: memoria e presente si mescolano, non per evocare un preciso istante nel tempo e riportarlo alla luce, ma per apprezzare i nostri limiti umani.
Ma forse la persona che più di tutte ha incarnato il revival di questo strumento alle proprie condizioni è un altro: Mac DeMarco. La passione del canadese per gli strumenti d’annata, non necessariamente i più rari e costosi, è nota. La DX7 – economica e antiquata – non poteva che far parte delle sue tastiere preferite. E infatti la troviamo in gran parte della sua discografia, trattata come i suoi creatori l’avevano concepita: non per usare i preset, ma per creare nuovi suoni elaborando patch originali. L’infernale accompagnamento di Passing Out Da Pieces su Salad Days, che con la giusta iniezione di eco ha la morbidezza di una credenza piena di piatti che si sbriciola? Una DX7. L’organo che oscilla come un folle in Chamber Of Reflection dallo stesso disco? Una DX7. Il piano elettrico (sempre lui) che tiene l’intonazione con il controllo di un ubriaco in Another One (2015)? Una DX7. Diamine, la tastiera Yamaha si vede e rivede anche nel making of dell’omonimo mini-album e nel video della title-track, mentre viene suonata in mezzo all’acqua! Anche il successivo album This Old Dog ha diversi momenti di DX7 qui e là, specie per le parti di tappeto, che grazie alle peculiarità della tastiera non si fanno completamente sommergere dai convitati dell’arrangiamento. In questo senso, DeMarco scrive una propria pagina originale della storia del synth-pop dedicata a questo strumento: una pagina di deragliamenti dal presente, ma mai di autentica nostalgia.
Dopotutto, interrogarsi su come un suono e uno strumento così perfettamente cristallizzati nel passato interagiscano con il nostro paesaggio acustico e culturale è legittimo. Ma, alla fine, uno strumento è sempre anche soltanto uno strumento: è il musicista che lo suona a renderlo una voce del proprio tempo. Bon Iver ha fatto così con il DX7, una presenza talmente importante nell’album 22, A Million da meritarsi una menzione nel retro copertina (precisamente per la traccia 21 Moonwater). Fintantoché esisteranno artisti curiosi, alla ricerca di risposte creative e originali da ricercare – se serve – anche dentro pezzi di modernariato musicale, la DX7 avrà ancora uno spazio negli studi di registrazione di tutto il mondo (o nelle workstation sotto forma di emulatore). Finché un giorno non smetteremo di considerarla la scatola dei suoni degli anni ‘80, ma uno spazio infinito di creatività.