Testo di Federico Pucci.
Nella storia delle lingue esiste un fenomeno ben studiato che ci illustra come le comunità di parlanti, separate dalla madrepatria se non per qualche raro contatto e ormai lontane dal centro culturale dove lessico e grammatica continuano a evolversi, conservano più a lungo forme e suoni che nel centro verrebbero considerati antiquati. In musica penso che succeda qualcosa di simile, quando luoghi che ancora oggi risultano isolati e remoti, nonostante la rete e la globalizzazione, sviluppano tendenze estetiche apparentemente passatiste. In Australia, a quanto pare, è successo qualcosa di simile con il rock psichedelico e tutto quello che gli sta intorno.
Dieci anni fa, di fronte all’indubbio e globale successo di Elephant di Tame Impala, un’eminenza del giornalismo musicale come Everett True parlava sul Guardian di un rinascimento psichedelico australiano. Qualche tempo dopo, Kevin Parker in persona avrebbe risposto, con un certo sarcasmo: “Non c’è nessuna scena australiana. In realtà saremo 10, massimo 15 persone in tutto”. E se nella prima metà degli anni ‘10 era più che legittimo mettere un freno alle speculazioni critiche, oggi le cose sono molto diverse.
Tutto è partito proprio dal successo di Lonerism, che aveva premiato il lavoro della label che lo pubblicò, l’ormai defunta Modular di Steve Pavlovic.
Tra il 1998 e il 2015 l’etichetta di Sydney ha scoperto e pubblicato alcune delle più interessanti proposte australiane, con un particolare fiuto per la musica visionaria e un po’ allucinata, dai sample degli Avalanches allo zeppelismo villoso dei Wolfmother. In particolare, nel 2010 pubblica due album che sembrano segnare un punto di non ritorno per la musica inondata di riverbero e delay: InnerSpeaker, opera prima dei Tame Impala; e Beard, Wives, Denim, secondo lavoro dei Pond. Due gruppi di Perth, con una certa permeabilità reciproca nelle formazioni (Parker avrebbe suonato la batteria in quell’album e prodotto quello e i successivi); due progetti con diverse anime (decisamente più energica e mefistofelica la prima, più agrodolce e frizzante la seconda); due album il cui luogo d’origine dice già qualcosa sui luoghi di questa psichedelia australiana.
Nel corno meridionale della costa occidentale, 250 km a sud di Perth, Pond e Tame Impala avrebbero trovato ispirazione, pace e silenzio in un territorio punteggiato di fattorie, spiagge e caverne calcaree, che avrebbe avuto un ruolo specifico nel modellarsi di un certo suono. Il layering dei timbri, il gusto per i groove energici e lo spiccato amore per le distorsioni grasse di InnerSpeaker forse non avrebbe fatto storia (e scuola) se Parker non l’avesse in un luogo dall’acustica particolarissima: la Wave House a Yallingup (che nel 2020 Parker avrebbe acquistato) era costruita in una miniera dismessa, completamente circondata dal calcare che – a detta di Parker – è il materiale ideale per incidere, grazie alle sue qualità fonoassorbenti. Con una terrazza sul mare davanti e un teatro naturale di pietra assorbente alle spalle, il debutto di Tame Impala aveva lo stimolo di un paesaggio affascinante, il clima mediterraneo che favoriva lunghe sessioni e le condizioni acustiche per amalgamare tonnellate di eco in un suono dall’amalgama inimitabile. Lo stesso può dirsi della Zampatti Farm, tenuta dove i Pond hanno inciso spesso, prima di entrare stabilmente nell’home studio di Parker: ma sempre di atmosfere familiari si parla.
Isolamento geografico-culturale, clima dolce, panorami eccezionali sono insomma parte della fortuna di un certo suono. Ma ogni storia ha le sue premesse storiche, e quella della psichedelia australiana parte – come tutte – nella seconda metà degli anni ‘60 e ha a che fare con la lontananza di quella terra dai centri propulsivi dell’immaginario pop coevo.
Band ispirate profondamente dai Beatles, come i Bee Gees (proprio loro) hanno seguito a distanza la traccia dei Fab Four anche nella loro fase psichedelica, mentre altre leggende locali tipo The Masters Apprentices si sono fatte conoscere proprio filtrando la controcultura californiana attraverso il filtro di Liverpool e Londra (consigliata la lettura di questo articolo di Rolling Stone Australia per farsi un’idea della permanenza). Nel 1973 la neonata Mushroom Records (che 15 anni dopo avrebbe lanciato Kylie Minogue) avrebbe pubblicato come primi dischi proprio roba psych, come i Madder Lake. Nello stesso anno esce un disco del tutto fuori dai radar e dai circuiti commerciali che, proprio per questo, sembra indicare a maggior ragione una persistenza di certi gusti per il mesmerico nel palato australiano: Fire Of God’s Love di Sister Irene O’Connor, suora francescana che già nel decennio precedente aveva fatto folk psichedelico con il nome d’arte Myriam Frances, e ora suonava le sue lodi al Signore con organi elettrici e un intuito artistico a dir poco profetico, specie nel particolare uso del delay, del riverbero e di linee di basso circolari.
Negli anni ‘80 e ‘90 la proposta psych australiana non si è mai del tutto esaurita, nutrendo nel sottobosco musicale contaminazioni con elettronica, shoegaze, noise e punk mentre il grosso dell’attenzione per il rock australiano era su tutt’altra roba, tipo INXS o Birthday Party: questo accuratissimo articolo dell’edizione australiana di Rolling Stone può essere un buon punto di partenza per indagare questa parte della storia. Grazie alla permanenza di questo lessico musicale, negli anni Zero e Dieci non c’erano solo le band di Perth pronte a sbocciare: altri precursori del “rinascimento” vengono da Brisbane, come l’ensemble disco-psych-rock John Steel Singers dalle linee di basso più circolari di un anello di cipolla e i Blank Realm che mescolano indie pop trasognato con un canto alla Dylan e melodie alla Daniel Johnston; o, da Melbourne, le Beaches che hanno incorporato perfettamente psichedelia e shoegaze. (Per questa fase storica bisogna citare Chapter Records e Bedroom Suck Records).
Ma questa epoca, che ha visto l’espansione vertiginosa delle nostre reti sociali e di informazioni, non può giustificare la psichedelia soltanto nei termini dell’isolamento culturale. Piuttosto che una fantomatica predisposizione genetica, allora, viene naturale cercare nello spazio (mentale, geografico, culturale) del Paese una ragione per questa propensione musicale. Lo spazio per provare, sperimentare e insistere a prescindere da quel che il mercato inviterebbe a fare. Basta pensare a come molti progetti di questo rinascimento psych si siano formati o continuino a operare in una disposizione mentale e umana molto simile alle esperienze delle comuni: uniti in uno spazio secluso, a contatto continuo, e dediti soltanto al gioco della musica, questi gruppi hanno affinato il loro linguaggio sonoro e – ancora più importante – la loro capacità di intendersi e suonare come un sol uomo. Tolti i progetti solitari come Tame Impala, infatti, la nuova psichedelia aussie ha una dimensione collettiva decisamente pronunciata: parliamo di band affiatate, la cui competenza tecnica non è fredda misurazione di note e tempi, ma una sintonia profonda. Nell’epoca delle workstation digitali e dei dischi solipsisti in cameretta non ci siamo più abituati, potremmo quasi non notare la differenza, ma dall’altra parte del mondo c’è ancora chi ha l’accortezza di fare cose all’antica: suonare jam session e schiacciare il tasto REC non appena sbuca una perla.
Questo è il modus operandi di un’altra band che ha reso celebre la psichedelia australiana: i King Gizzard and the Lizard Wizard. Dall’altro lato del Paese rispetto a Pond e Tame Impala, nella ben più urbanizzata area di Melbourne, il gruppo ha sempre mostrato una propensione per alcune delle qualità più evidenti del rock psichedelico: groove circolari, bordoni elettrici intensi, densità di arrangiamenti, accostamenti inusuali di suoni, contaminazioni raga, sono solo alcuni degli elementi costitutivi di diversi loro lavori, specie nella prima parte della loro prolifica discografia, come Float Along – Fill Your Lungs del 2013 o Nonagon Infinity del 2016, dove accanto all’equipaggiamento rock compaiono anche strumenti “esotici” come sitar (praticamente il passaporto psych-rock) e zurna. Ma questi elementi non sono scomparsi del tutto nemmeno nella produzione più recente, incorporati nel ricco pastiche garage rock, stoner rock, heavy metal, dream pop, doom, fusion, soul funk, jazz rock, pop sperimentale, prog (sto dimenticando almeno una decina di altri generi) che hanno prodotto. Anche perché della cultura lisergica i KGLW non ereditano soltanto qualche trick alla chitarra e la fusione di tessiture strumentali di culture lontane: tra storie di pianeti e civiltà aliene, ossessioni geometriche, viaggi interstellari, rinascita spirituale, ricerca dell’eternità dell’anima, ambientalismo radicale, interessi mitologici, e purissimo non-sense il gruppo ha un curriculum di studi da fare invidia. D’altronde, l’interesse per questa musica è evidente anche nell’output della label Flightless Records, fondata da un (ormai ex) componente dei KGLW, Eric Moore, e che a lungo ha contato la band nel suo roster. Con Flightless, per esempio, sono usciti negli anni tre progetti di aussie-psych notevoli e molto diversi tra loro: le Stonefield, quartetto composto dalle sorelle Findlay (una delle quali, Amy, è sposata con Michael Cavanagh, batterista dei KGLW) dal suono luciferino e angosciante; i Murlocs, spin-off di Ambrose Kenny-Smith e Cook Craig dei Gizzard, che in un immaginario decisamente meno spaziale e più rurale contaminano alcuni elementi della psichedelia folk alla David Crosby con un amore immutato per le distorsioni garage e un gran groove; i Beans, gruppo garage-psych guidato dal batterista dei Murlocs con il fuzz nel cuore, gli acidi in circolazione, bassi funk in loop e un interplay grandioso che fa del loro più recente album Boots N Cats una chicca da non perdersi in questo (ovviamente) fittissimo 2024.
Accanto a una linea genealogica psych radicata nel rock, la stessa che avrebbe visto nascere eredi di Tame Impala e KGLW come gli eclettici e briosi Psychedelic Porn Crumpets, esiste una tradizione sempre più consistente della musica australiana legata invece a quella parte di soul, jazz e funk che la critica ha identificato come black psychedelia – da Sly Stone ai Funkadelic, da Betty Davis a Sun Ra. A questa scuola appartiene la band di Melbourne Hiatus Kaiyote: tra neo-soul e jazz, il lavoro della chitarrista-cantante Nai Palm e dei suoi soci ha fatto del clash di generi una specialità, sintonizzandosi anche con il revival black psych e lo psych funk (particolarmente chiaro in Choose Your Weapon). Ma alla base di tutto questo c’è un interesse per tutto ciò che coinvolge l’esperienza sciamanica e la passione per le geometrie ipnotiche, il che collega il progetto direttamente ai feticci e ai simboli della controcultura californiana di 60 anni fa. Tracce come Sparkle Tape Break Up o Get Sun mostrano un’affinità anche sonora con il cosmico, per quanto raggiunto attraverso i metri sghembi di J Dilla e sopra solidissime melodie soul.
Del resto, coordinate non troppo diverse da queste orientano tutta un’altra parte consistente e vivacissima di questo panorama australiano. Mi riferisco a quella scena che si rifà largamente alla tradizione del cinematic soul per estrarre dai leitmotiv e dai groove infiniti loop ipnotici – niente di più psych di questo – scena che si è coagulata intorno a un’altra label importante, la College of Knowledge di Coburg, dintorni di Melbourne. Tra le band che a un certo punto sono passate da lì ci sono i Karate Boogaloo, che nel recentissimo album Hold Your Horses offrono groove per chiunque ne abbia bisogno e una propensione quasi tattile per il suono prodotto da strumenti vintage come l’organo Hammond e le vecchie chitarre hollow body; il settetto chitarre e ottoni Let Your Hair Down, con un boogaloo funk dichiaratamente ispirato alle produzioni di Leon Michels, che per la sua capacità di incorporare temi melodici (come Still D.R.E. in questa traccia del 2021) rimanda certamente più al jazz; i Surprise Chef, che alla corte di Leon Michels (cioè alla Big Crown Records) ci sono arrivati veramente, e che non hanno mai inciso una linea di basso che non incantasse le orecchie come una spirale rotante con gli occhi, o una spennellata ruvida di Farfisa che non lasciasse piacevolmente intontiti; e infine The Pro-Teens, senza dubbio i più strambi del mucchio, ma con un controllo del suono e una scrittura tutt’altro che lasciati al caso. Se vogliamo scendere ulteriormente nella tana del bianconiglio (del resto, parliamo di allucinazioni), dobbiamo citare anche i Mildlife, band che spinge questa sensibilità ancora più decisamente verso lo psych-jazz con groove discomusic irresistibili e droni di synth dream pop che danno al tutto un’atmosfera soffice ed elettrica, come volare nello spazio a bordo di una nuvola di zucchero filato: lanciati dalla Research Records (che rincontreremo tra non molto), i quattro musicisti di Melbourne hanno un groove che non stonerebbe in tandem con la musica dei Nu Genea, ma con quella punta di acido in più che rende l’esperienza piuttosto mistica.
Se queste band sembrano piegare a loro piacere il sound del passato per aderire a un gusto decisamente più contemporaneo, esistono anche progetti che abbracciano completamente la retromania, realizzando appieno l’inattualità di un movimento psych rock nel 21esimo secolo. Un esempio è quello dei Babe Rainbow dal Nuovo Galles del Sud, che tra armonie vocali alla Beach Boys e folk lisergico da surfista californiano, sembrano atterrati qui dal 1967. Ma tra le nuove leve c’è chi riesce a tenere in equilibrio un pacchetto estetico vecchio di sei decenni con un messaggio contemporaneo: penso ai Sunfruits da Melbourne, quintetto che nel proprio pop psichedelico rimanda tanto al passato più remoto quanto all’esperienza degli MGMT, comunicando con parole che suonano nuove a una coscienza del declino ecologico assolutamente moderna. (Tra parentesi, il prossimo 11 giugno suonano a Lecco: chi può, vada a sentirli perché sembrano seriamente spassosi). Si definiscono orgogliosamente non-revivalisti, invece, i Bananagun, band che frulla il tropicalismo dentro il loro soul funk delirante: non saprei se dar loro retta, ma sicuramente suonano e si dannano come se non ci fosse un domani.
Vale la pena chiudere questa storia con una delle realtà più interessanti di questo movimento, un progetto che per molti versi racchiude motivi e spunti toccati in ciascuno dei paragrafi precedenti: parlo del trio Glass Beams, presentato al mondo dalla Research Records nel 2020. Questo gruppo misterioso che si esibisce con maschere incastonate di gemme di vetro ha ricordato a tutti che certi suoni e certe sensibilità sono stati catapultati in Australia anche per merito delle migrazioni indiane attraverso l’oceano che separa i due subcontinenti. Rajan Silva, unico componente del gruppo di cui si conosca il nome, tiene molto a collegare la musica di questi – frettolosamente definiti – Khruangbin australiani alla loro originale fonte. Il sincretismo della band non ha soltanto un orizzonte geografico: fondendo strumenti acustici ripresi con altissima fedeltà e chitarre e bassi vintage di marca Maton (ovviamente, australiana), droni di synth modulari e scale raga, feeling live e accuratissimi mix, i loro lavori cercano di gettare un ponte tra l’orecchio contemporaneo e l’orecchio antico. L’amore ossessivo per i temi, lo sviluppo degli stessi in trame mesmerizzanti, invece, è purissima eredità psichedelica: e quello, a quanto pare, non si scollerà mai dall’Australia.