Testo di Federico Pucci.
Con le etichette e le appartenenze bisogna andarci piano. I Nu Genea lo sapevano bene. La loro sensibilità all’impatto culturale di una scelta che parrebbe innocente e priva di conseguenze l’hanno dimostrata con un gesto che, forse, per alcuni non ha avuto l’importanza che pensiamo: quando nel giugno 2021 hanno cambiato nome, lasciandosi alle spalle le valenze problematiche, colonialiste e razziste, della parola Guinea.
Guinea si portava dietro troppe connotazioni che, a conti fatti, non avevano molto a che fare con il messaggio della musica di Lucio Aquilina e Massimo Di Lena. Alla fine del post in cui comunicavano quel cambiamento, il duo diceva: “Pensiamo che lo scambio di idee, stili e tradizioni sia uno dei cardini e delle gioie di una società moderna e multiculturale, ma per favorire una maggiore connessione tra esseri umani c’è bisogno di un’attenta sensibilità”. Non era solo una questione di parole, per quanto non siano temi da prendere sotto gamba: era una questione di proposta culturale, era una questione di musica. Lo avremmo scoperto con le nostre orecchie nel giro di un anno nemmeno.
Il 13 maggio 2022 esce Bar Mediterraneo. Per il duo napoletano-berlinese non è soltanto un’altra bella raccolta di beat rimbalzanti e melodie ipnotiche: è una dichiarazione d’intenti. Presentando il disco, Aquilina e Di Lena hanno tenuto a mettere in chiaro che dietro il simpatico calembour del titolo c’era un’immagine ben precisa. Forse nelle nostre vite troppo connesse l’abbiamo dimenticato, ma il bar non è soltanto un esercizio commerciale. Convinta di essere superiore a certe dinamiche, una parte della società civile ha anzi rifiutato apertamente quel simbolo: le “chiacchiere da bar” e i “ragionamenti da bar” sono diventati sinonimi di quanto ci fosse di più basso, istintivo e gretto nel nostro mondo. Ma un bar è un ecosistema perfetto per capire come funziona lo “scambio di idee, stili e tradizioni”.
Intanto per cominciare, perché rispetto al locale, chiunque entri è, letteralmente, straniero (extraneus, “che viene da fuori”): il microcosmo del bar è il luogo nel quale si arriva con un bagaglio essenziale, e volenti o nolenti lo si mette in comune. Certo, è un luogo di passaggio dove le interazioni sono temporanee e ridotte all’essenziale, ma questo vale per tutti: nessuno abita in un bar, nessuno ne è padrone, a malapena lo è il titolare. Questo perché, in quanto costrutto sociale, un bar è come una classe di scuola: la somma delle sue componenti umane, prima ancora che l’istituzione che ospita banchi e lavagne.
In quanto porto nel centro del Mediterraneo e crocevia di persone e culture che passando (talvolta anche colonizzando) hanno lasciato un’impronta nel tessuto linguistico e artistico, Napoli è come un bar. La sua indole profondamente anarchica viene da questo: è un luogo di incontro, non di conquista e appropriazione. In questi anni in cui la metropoli campana è diventata oggetto di narrazioni molteplici, talvolta profonde e sincere, talvolta di mera convenienza commerciale e hype, è importante capire la liquidità costitutiva della sua cultura. Napoli è un processo, non un risultato. E la contaminazione musicale, quando è fatta bene, funziona precisamente così.
A nessuno deve essere vietato divertirsi a suonare la musica di un’altra cultura, anche lontanissima: questa è la base dell’innovazione musicale stessa. Ma quando il discorso si approfondisce, quando si vuole fare una fotografia più autentica di un momento storico e di un luogo serve – per citare i Nu Genea – un’attenta sensibilità.
Contaminarsi è come entrare in un bar. Le esperienze e le idee altrui vengono momentaneamente messe in comune, non per appropriarsene ma per identificarcisi. Non è un mercato, è un dialogo. Per esempio, Bar Mediterraneo non è tanto un disco nel quale i Nu Genea hanno accolto suggestioni nordafricane: è un disco nel quale la musica nordafricana (simboleggiata per esempio da un napoletano d’adozione come il tunisino Marzouk Mejri) ha espresso il suo punto di vista su forme e motivi condivisi, per trovare una sintesi che funzioni su due piani di lettura.
Gelbi, in questo senso, è una traccia significativa. Inizialmente, hanno raccontato i Nu Genea, non partiva come una canzone di esplicita ispirazione tunisina. Aprire le porte del Bar Mediterraneo, facendo entrare il flauto ney e Marzouk Mejri ne ha spostato il baricentro, fino a tirarne fuori una straziante ballata d’amore che somiglia molto più a Tebourba e Tunisi che a Torre Del Greco. Far arrivare, subito dopo questo momento, un brano come Marechià con Celia Kameni, è il colpo di genio: un brano che più funky non si può, che più napoletano non si può, con la lingua che fu dei momentanei padroni della città (il francese) mescolata alla lingua autoctona, dove il punto di vista sull’amore e la mancanza questa volta è ribaltato. Non è una tracklist, è una conversazione. Il fatto che venga accompagnata da uno dei più densi (e dissimulati) arrangiamenti di mandole dell’intero album non è da poco: la mandola è, per antonomasia, lo strumento simbolo dello scambio con la cultura araba, relitto di una dominazione così antica da sembrare ormai quasi leggendaria.
Bar Mediterraneo rappresenta una coscienza del multiculturalismo a cui ancora parte del nostro Paese deve arrivare. Non è una perdita di sé, ma un arricchimento. Altrimenti come si spiega una traccia come Vesuvio? Riadattamento di una canzone folk del gruppo ‘E Zezi tratto da una poesia di Castellano, sommo inno alla precarietà esistenziale (degli operai dell’Alfasud così come di chi vive sulle pendici di un vulcano attivo), questa tappa del percorso del disco dice una cosa molto precisa, per quanto intessuta nell’arrangiamento anziché pronunciata a parole: quando vuoi fare una canzone tribale, non puoi che partire dalla tua tribù di provenienza, dalle sue parole, dalla sua forma di danza (la tammurriata). Allora arriverai all’afrobeat in un modo naturale, seguendo percorsi culturali talmente profondi da essere perduti nelle sabbie dei tempi, e senza cadere involontariamente in dinamiche coloniali.
Ammirare la preziosa bellezza di questo album, a due anni di distanza dall’uscita, soffermarsi sul dono che sono i colpi di Tony Allen su Straniero, il lirismo energico di Fabiana Martone, la profondità degli arrangiamenti chitarristici di Aquilina e Di Lena o la voce sinuosa di Marco Castello su Rire rischia però di farci perdere il focus sulla conclusione. Alla fine di questo botta e risposta tra culture vicine, di fronte all’armonia del caos di questa simmetria cinetica, troviamo La crisi. L’adattamento dei versi di Raffaele Viviani da una parte fotografa la capacità del popolo napoletano di accontentarsi, ma nel suo elogio agrodolce della gratuità c’è qualcosa in più: lo scambio culturale è gratuito, ma le dinamiche di potere implicite in questo dialogo hanno un prezzo nascosto.
La somma finale, insomma, non è zero. C’è sempre qualcuno a cui tocca restare senza niente in tasca, e per questo bisogna muoversi e suonare con estremo rispetto, senza arrogarsi diritti. Napoli è stata ed è soggetta a queste logiche, dalla parte perdente: tutti ne vogliono un pezzo, senza volersene far carico. Quando si guarda ancora più a sud, però, bisogna sapersi rapportare alla stessa maniera, con coerenza e rispetto, non pretendendo di avere sempre l’ultima parola, e cercando di immedesimarsi nelle sofferenze come nelle gioie altrui. Perché nel Bar Mediterraneo la musica è di tutti.