Testo di Federico Pucci.
Qualcosa di cui si parla spesso qui è la collaborazione: è uno dei punti di forza del nuovo jazz; è la ragione per cui si può parlare di “scena psych australiana”; è stata necessaria per l’evoluzione del pop italiano dell’ultimo decennio.
Collaborare è essenziale per la produzione di arte. Il contesto tecnologico ha contribuito senza dubbio a un’iconografia ben precisa del produttore/artista del XXI secolo come figura autosufficiente, isolata. Ovviamente, è una favola, confermata paradossalmente dalla retorica dei “Re Mida”, quei produttori che con un solo tocco sarebbero capaci di trasformare una qualsiasi jingle in hit. Il produttore non è l’eremita in cima alla montagna, visitato dall’artista assetato di arte (e di stream), ma è parte di una comunità. Insomma, può essere diminuito il numero dei fattori, ma la musica resta un’equazione a sommare: un lavoro di team diretto dall’artista, che nella gran parte dei casi dovremmo immaginare come un regista più che un artigiano.
Il che non significa negare l’esperienza (più o meno) solitaria: se oggi si parla di produttori come artisti è perché per molti di loro la duplice carriera, al servizio di altri e al servizio di sé, è un’opzione naturale, parte di un percorso. Dove quello che si scopre da soli si mette in comune, e quello che si impara dagli altri diventa un patrimonio prezioso. Lo vediamo anche se passiamo in rassegna alcuni (non tutti!) giovani produttori fra i più interessanti d’Italia.
Se dovessimo affidarci alla storia del “Re Mida” dovremmo dire che in un futuro non troppo lontano, il prossimo ad ambire alla corona che fu di Canova e Takagi & Ketra, di Dardust e di Charlie Charles e che ora sembra saldamente in testa a Michelangelo, potrebbe essere un giovane bergamasco classe 1996 che risponde al nome Giorgio Pesenti. Chi aveva le orecchie tese verso le novità musicali degli ultimi 5 anni forse ha già incontrato okgiorgio come produttore degli ISIDE, la sua band; il grande pubblico probabilmente ha fatto conoscenza del suo nome come co-autore di Pastello bianco, il maggiore successo dell’ultima band pop che abbia sfondato in Italia; milioni di persone hanno sentito il suo nome per ben due canzoni in gara al Festival di Sanremo 2023, tra cui Non mi va dei Colla Zio, una delle prime band con cui abbia mai lavorato in regia. C’è un appeal indubitabile nel suo gusto weird pop per il suono che svisa nell’inatteso e per la contaminazione surreale e chiastica (alt nel pop, pop nell’alt): la sua produzione solista, che ricorda il clubbing acido, sporco e assurdo di un Four Tet o Caribou, conferma questo suo piacere combinatorio. Oltre a quest’estetica, che mescola il marcio e il miele, collocando ciascuno nel posto dove non ci si aspetterebbe che fosse, la sua forza sta in una solidità di scrittura confermata dai numeri: okgiorgio sa dove deve andare un pezzo (ringrazia anche un’altra giovane popstar come Angelina Mango per la sua prima hit Voglia di vivere). Perfino nel pachidermico sviluppo artistico del mainstream italiano può farsi largo una voce “altra” come quella di Pesenti che si limita (per così dire) a mescolare dimensioni: il suo lavoro con artisti come Giuse The Lizia e Fulminacci, con due visioni molto particolari di indie pop che non si presta a facili cliché, prova che il reciproco scambio di gusti e stili non impoverisce, se posto al servizio della canzone (cioè della scrittura, in primo luogo) e non come puro esercizio intellettuale. Una prova recentissima del suo range: produrre nello stesso disco (FLASH di Ditonellapiaga) la sottilissima ballata folk Come prima e la galattica e selvatica Mary.
La definizione di un suono o di un periodo storico-culturale può partire anche da un sodalizio quasi fraterno, nell’ambito tutto sommato piccolo di una scena che a quel punto non si è ancora imposta, come nel caso di Ceri. Il produttore cresciuto a Trento, Stefano Ceri all’anagrafe e classe 1990 l’anno di nascita, ha fatto della condivisione una parte essenziale del suo approccio: se il lavoro con Frah Quintale, suo compare in Undamento, ha posto le basi per lo street pop italiano degli anni a venire, lo ha fatto come risultato di una sintesi e un confronto di formazioni e approcci personali. Non si fa scuola, insomma, senza prima un serio scambio e una gavetta importante. E quella di Ceri, che è passato dal produrre molto giovane un intero album di Coez (Niente che non va) al mettere la firma su una delle più importanti ascese nel mainstream come quella di Mahmood (Gioventù bruciata), è stata più che importante – e più che gavetta! Come dimostra anche la sua produzione solista, il talento di Ceri sta nel creare l’illusione di frugalità sonora dentro arrangiamenti e produzioni in realtà molto ricche, se non proprio massimalista: l’album Stanza Singola di Franco126 (un altro dei lavori su cui ha apposto la firma) ne è stato un esempio illuminante, un lavoro di somma di piccole cose che ha permesso ai due di arrivare a un crescendo coinvolgente senza i soliti trucchetti di dinamica del pop commerciale; ma anche il recentissimo contributo a LACRIME E CEMENTO di IRBIS ne è una dimostrazione evidente.
A proposito di Mahmood, uno dei musicisti che ha influenzato i lati più avventurosi del pop italiano ha lavorato molto con l’artista milanese, accompagnandolo anche in tour. Francesco Fugazza, classe 1989, che con Marcello Grilli (in due, i MUUT) ha fatto insieme a Mahmood un percorso partito da lontano, a dimostrare ancora una volta che l’elemento umano della condivisione non è prescindibile. Una fratellanza (accentuata se possibile dai molti lavori con il fratello Marco, aka Suorcristona) che, quando si va alla sostanza, supera ogni logica tatticista sul ruolo di questo o quel producer nella costruzione dell’hype. Il percorso di Fugazza e Grilli con Mahmood viene da lontano, ben prima del successo. Oltre all’evidente rapporto di fiducia e sintonia, anche sul palco, il duo ha consolidato, disco dopo disco, l’influenza di un’elettronica transumana e avant-pop nella musica dell’artista. Anche se, forse, il loro capolavoro è stata la fusione di passato ancestrale e futuro spettrale nell’adattamento di Com’è profondo il mare con i Tenores di Bitti sentito a Sanremo. Di nuovo, la commistione di piani unita a una consapevolezza di come si giochi con la tradizione ha fatto delle produzioni di Fugazza un esempio ammirevole di modernizzazione del suono del pop italiano fatto come si deve: non semplicemente importando idee dall’estero, ma andando a capire quali si prestano meglio alle proprie radici, e a quelle degli artisti con cui si lavora. Lo confermano le collaborazioni di lungo corso con Ginevra e Nava, due delle proposte alt pop con più credibilità in circolazione, oltre al contributo a Vesuvia di Meg come parte di un team che fra Frenetik, Tommaso Colliva e altri, contava già alcune delle migliori teste (e orecchie) della produzione italiana.
Per capire quanto la musica sia scambio e trasmissione, prima di tutto in sede di creazione e produzione, basta vedere le linee genealogiche che mettono in contatto artisti e produttori. Ad esempio, il primo progetto da solista dell’ex Siberia Eugenio Sournia, l’EP Dignità, ha visto in regia Emma Nolde, peraltro produttrice anche di Solo per te di Ethan, in entrambi i casi dedita all’estrazione di un suono scuro e drammatico. A sua volta, il secondo album di Nolde, Dormi (2022), è stato co-prodotto con Motta. Il quale, risalendo ancora indietro, ha avuto il supporto di due cantautori-produttori nei suoi due esordi, prima con la band Criminal Jokers (This Was Supposed to Be the Future del 2010, prodotto da Appino degli Zen Circus) e poi da solista (La fine dei vent’anni del 2016, prodotto da Riccardo Sinigallia). Seguendo questa linea non solo si costruiscono ambienti e contesti (principalmente, la Toscana in questo caso), ma si può vedere un passaggio del testimone e una certa sintonia di messaggi, in questo caso per una musica che debba trasmettere un’onestà quasi abrasiva.
Sintonie o meno, un produttore deve in qualche modo sapersi esprimere con la lingua più universale eppure più incompresa di tutte: la musica. Le produzioni di Golden Years, per esempio, riescono a evocare sempre una nostalgia per un tempo imprecisato anche senza calcare troppo la mano su strumentali e timbriche eccessivamente connotate ma giocando piuttosto su delay, riverberi ed echi con sapienza. Il produttore romano, per l’anagrafe Pietro Paroletti classe 1993, ha maturato un’esperienza invidiabile con artisti di diverse estrazioni, riuscendo anche a contribuire integralmente o massicciamente ad album come Corallo di Colombre (peraltro produttore abilissimo per Chiello e IRBIS) o LOVEBARS di Frah e Coez. Con un orecchio un po’ alla Mac DeMarco per gli effetti sentimentali del suono, Golden Years ha contribuito a quella parte subliminale dell’esperienza dell’ascolto, che permette al senso di una canzone di passare anche senza le parole: la senti nella consistenza disfatta delle COSE IN COMUNE di Ariete come nella dance sfarfallante dei Voli pindarici di Elasi; nella compressione satura da magone di una Valerio di Adelasia al tocco slacker del recente TILT di Bartolini. Produrre in questo senso è un connubio tecnico-emotivo con l’artista, che fa del produttore stesso un artista – e del resto, la produzione solista di Paroletti ha quello stesso gusto ipnagogico e dolcemente cosmico che si può sentire di più o di meno nei progetti citati.
In molte di queste storie, la produzione arriva come step necessario per arrivare a poter fare la propria musica: in pratica, talvolta un produttore non è altro che un musicista che deve imparare a registrare da sé perché non si trova bene con altri. La democratizzazione dei mezzi e la presenza di modelli diversi, anche in termini di gender, ha permesso ad artiste come BLUEM o Marta Del Grandi di avere un controllo pieno della propria espressione artistica. Ma in altri casi, questa possibilità ha anche aperto altre forme di lavoro. La già citata Elasi ne è un esempio. L’alessandrina classe 1993, al secolo Elisa Massara, ha iniziato a prodursi da sola proprio per questo motivo, sviluppando da entrambi i lati un gusto per il campionamento e l’elettronica da club che contraddistingue la sua impronta. L’esperienza acquisita, però, si è rivelata utile anche nel lavoro con altri: ad esempio, sua (e di Cucina Sonora) è la produzione di Bambi di Marta Tenaglia, a sua volta produttrice oltre che artista. Alla dimensione comune Elasi crede al punto da aver formato il collettivo Poche, che si pone proprio l’obiettivo di fare rete tra produttrici (ne fa parte un’altra artista produttrice di talento come Whitemary). A co-fondare Poche con Elasi è stata la veronese Matilde Ferrari, aka Plastica che ugualmente può vantare una solida esperienza di lavoro per terzi accanto al suo percorso personale. L’epoca di Spotify e delle DSP ha reso molto meno macchinoso seguire due binari in questo modo, e sta alla sensibilità dei singoli produttori arricchirsi anziché smarrirsi nelle loro attività artistiche. Certo, è più facile ritrovare il suono di UV (l’EP di Plastica del 2022) nel nu soul glitchato di Facile di Ethan, nel beat ansioso e nelle tastiere calanti di Particelle di Giuse The Lizia e Laila Al Habash, o ancora in Saliva di Vale LP e Tripolare; meno immediato, invece, il collegamento per le produzioni dell’album Post Buio di Kaze, che però presenta alcune cifre della produttrice (come la gestione dei vuoti e certi bassi argillosi) nel singolo Mon Coeur.
Che il lavoro nel suono sia prima di tutto a servizio dell’artista, senza che questo sminuisca affatto il contributo del tecnico, è un messaggio spesso ribadito da una delle eccellenze mondiali dell’ingegneria del suono italiana, cioè Marta Salogni. La produttrice e sound engineer bresciana, classe 1990 ma dal 2010 di base a Londra, ha lavorato dietro le quinte di alcuni dei migliori dischi dell’ultimo decennio (Utopia di Björk e i,i di Bon Iver, tanto per fare due nomi) prestando il suo orecchio, il suo gusto e il suo interesse per la registrazione su nastro magnetico alle visioni di grandissimi artisti. Più ancora dei nomi incredibili del suo curriculum, è l’ethos di Salogni a dover ispirare i più giovani colleghi, connazionali e no: una dedizione alla profondità dell’ascolto, dall’audiofilo all’ascoltatore comune; una comprensione delle possibilità dell’analogico anche nel mondo digitale; una curiosità per il suono che non si limiti al browsing di library. Del resto un album come Hellfire dei black midi non poteva essere prodotto se non con la più grande delle aperture a qualsiasi informazione acustica possibile. Insomma, una cura sincera per la musica.
Anche in un contesto storico nel quale alcuni confini tra compositore e producer si sono assottigliati, produrre significa preoccuparsi di una parte del disco che non arriva immediatamente come un inciso melodico da canticchiare sotto la doccia. Per certi versi è come occuparsi dell’immagine coordinata, solo che quell’immagine è composta dal suono – qualcuno, come KWSK NINJA (cioè il napoletano Alfredo Maddaluno) effettivamente coniuga il ruolo di produttore a quello di art director e visual artist, il che si nota senza dubbio nel suo lavoro con LA NIÑA. Il che significa che, nel migliore dei casi, una produzione riesce a essere contemporaneamente molto importante e quasi invisibile.
Marco Giudici, milanese classe 1991, è un esempio di un produttore il cui apporto è allo stesso tempo minimo ed enorme. Dalla co-produzione dell’ultimo album di Adele Altro/Any Other al lungo lavoro con Luca Galizia/Generic Animal, da Marco Fracasia a Gregorio Sanchez, dall’alt pop ipnotico di Serena Altavilla a quello junghiano di Rareș (nella canzone Peggiore mossa), i lavori di Giudici spaziano tra generi, messaggi, radici, ma condividono un’estetica comune. Sono ricchi di aria e di acustica, ma non vuoti; esibiscono il caso e il rumore, ma non sono caotici; abbracciano una fragilità profonda, ma hanno un elemento consolatorio genuino. Un’impronta che i suoi lavori da artista (o nella superband Liquami) confermano, senza negare del resto la varietà dell’ispirazione, tra folk, jazz, ambient ed emo. Questo tipo di acustica è certamente esito di un’ingegneria del suono che è prima di tutto un’empatia e una pratica condivisa: non è un caso che Giudici abbia suonato per anni con molti dei nomi sopra citati, e che molti di loro li coinvolga nei suoi progetti, in una forma di sodalizio più profonda e costante. Una sintonia di intenzioni e di memorie muscolari. E forse non esiste nessun altro modo per produrre musica che aspiri a rappresentare davvero un artista, e che resista alla prova del tempo.