Testo di Federico Pucci.
Oggi, tutto brucia in un istante e si consuma in cenere prima che possa essere adeguatamente ammirato, conosciuto, studiato, apprezzato. Per questo – si può arrivare a pensare – non esistono più i classici: ci sono decine e decine di dischi per cui proviamo nostalgia, magari già a distanza di un anno dalla loro uscita, che ci aiutano a inquadrare un’epoca ma che non la trascendono, che non hanno il potenziale di unire epoche e generazioni diverse. In realtà, la situazione è molto meno grave di come l’abbiamo dipinta. I classici ci sono eccome, ma è molto più difficile inquadrarli come tali. E la colpa, forse, è nostra. Di noi ascoltatori, che fatichiamo a leggere dentro l’opera di un musicista, che non abbiamo il tempo e la pazienza per farlo, per riconoscere un artista che parli non soltanto direttamente a noi, che sia a suo modo universale.
Anche KAYTRANADA poteva bruciarsi in un istante. Quando nel 2021 un Grammy ha certificato agli occhi dell’industria il suo status di produttore di primissimo livello, le cose potevano facilmente deragliare. TIMELESS, il suo terzo album uscito venerdì 7 giugno, ha cominciato a prendere forma proprio dopo quell’evento, uno spartiacque. E questa è la prima ragione per cui KAYTRANADA è davvero “timeless”, un superclassico: non è fuggito dalle conseguenze del successo, ha provato a farci i conti. Ma a modo proprio. Un superclassico, insomma.
Nel 2021 il produttore canadese decise di abbandonare Montreal per Los Angeles. Anziché cominciare a diventare una versione hollywoodiana di sé stesso, KAY si è portato dietro un metodo, una filosofia: fare quello che gli piace, con gli artisti che gli piacciono. Certo, nella tracklist di TIMELESS puoi leggere i nomi di superstar come Childish Gambino e Anderson .Paak (non che sia la prima volta che si incontrano, anzi!). Ma per ogni Don Toliver c’è un Durand Bernarr; per ogni Pinkpantheress c’è una Dawn Richard; per ogni Tinashe (nella quale comunque KAY ha sempre creduto, anche quando la sua stella non era così luminosa) c’è un Lou Phelps (nel quale KAY ha sicuramente creduto, dato che è suo fratello). E così via, in un disco che non assomiglierà mai a un album di figurine, dove i nomi (Channel Tres, Charlotte Day Wilson, Ravyn Lenae, Rochelle Jordan) non sono una collezione di fanbase, ma un’Accademia di Atene del suono, menti assolutamente sopraffine messe insieme per risolvere il grande bisogno di groove del mondo: un album di famiglia, semmai. Ed è giusto così.
Come ha spiegato in una lunga intervista con Rolling Stone USA, per un attimo il rumore di fondo dei fan che avrebbero voluto vedere KAYTRA in studio con Beyoncé o Tyler, The Creator lo avevano irritato al punto da convincerlo a chiudere momentaneamente il suo account Twitter (fortunatamente riaperto in tempo per annunciare a novembre, in italiano, “album. finito”). Quelle richieste non erano state avanzate in cattiva fede: dopotutto siamo stati abituati per buona parte degli ultimi due decenni a concentrarci sui team up degli artisti come fossero puro fanservice, stile Marvel, e non il frutto di qualcosa di più personale e profondo; semplici transazioni commerciali che magari, per puro caso, restituiscono indietro qualcosa di buono. È facile cadere nella tentazione di leggere così un elenco di featuring, come bambini che giocano con i loro bambolotti preferiti: non è di questo che è fatto un classico. E anche in questo KAYTRANADA è un superclassico.
Da dieci anni a questa parte i rapporti artistici di intesa e collaborazione sono fili che si annodano e riannodano di continuo: e quando questa rete è completamente intrecciata, possiamo usarla per pescare solo lavori di altissima qualità, continuati negli anni. Possiamo sentire La Danse del 2015 e 4EVA dell’anno scorso e vedere crescere la sintonia del producer con Aminé, per esempio, senza avere l’impressione di aver ascoltato un type-beat, senza percepire stasi e convenienza, ma una passione e una crescita come quella inevitabilmente misurabile in un arco di otto anni. E se prendiamo gli esempi di collaborazioni che ritornano su questo disco (Charlotte Day Wilson nel 2019 e oggi; Anderson .Paak nel 2016, e nel 2022, e oggi; Durand Bernarr nel 2019 e oggi) notiamo esattamente lo stesso approccio: lavorare sui punti di forza dell’artista, metterlo a proprio agio ma alla condizione che le regole del gioco le pone il produttore – un atteggiamento, questo, sul quale il canadese ha ammesso di aver dovuto lavorare molto.
Lo possiamo vedere in tutti e tre gli LP firmati da KAYTRA: la priorità è sempre la consonanza tra la sua ispirazione strumentale e la voce (in senso letterale e metaforico) dell’ospite. Tenendo la barra dritta, perché alla fine il disco porta il suo nome in cima. KAYTRANADA è un superclassico perché ha resistito al suo stesso hype: continua a fare musica per ballare, come vorrebbe ballare lui. In un certo senso, è rimasto il ragazzino che a 15 anni provava a ricreare in camera i beat di Donuts, o che con il fratello cercava di cavar fuori una canzone da frammenti sparsi di 50 Cent. Uno smanettone, si potrebbe dire. Ma non solo: un ascoltatore, prima ancora che un musicista. Un artista che continua a volersi misurare con i modelli, in modo passionale ma maturo. Prendi Pressure, l’intro strumentale eccellente che apre TIMELESS, e paragonala all’omonima traccia di Lupe Fiasco che l’ha ispirata (l’ha confessato lui stesso su Twitter) e di cui infatti riprende il medesimo sample essenziale: KAYTRA vuole ancora capire come “dal nulla” emergono suoni, ritmi e riff che ti acciuffano l’orecchio e ti fanno alzare la pelle d’oca. Non ha smesso di ricercare e di migliorarsi. Non per una qualche lettura sciamanica alla Rick Rubin, o per un calcolo commerciale greve: per amore di quel che fa.
La storia della musica ci insegna che questo sentiero, però, può essere tortuoso e rischioso: la sperimentazione è dove molti artisti si perdono. KAYTRANADA è un superclassico perché questa sua ricerca risponde sempre alle domande da cui tutto è partito, e non cerca di soddisfare interrogativi giunti da fuori. E la domanda è: perché certi suoni da club funzionano così bene con una melodia soulful o con un flow rappato, e perché altri no? Fino a dove possiamo spingere questa sintonia? Possiamo ricreare il rhythm and blues da queste fondamenta? Come possiamo lavorare con le tecnologie per migliorare quello che hanno fatto i maestri a cui mi sono ispirato? Un esempio di questo approccio possiamo sentirlo in Seemingly: la traccia campiona Holding You, Loving You di Don Blackman, dalla quale KAYTRA ha estratto gli stem con l’aiuto di un’intelligenza artificiale. Lungi da essere paragonabile a chi spera di fare musica con un prompt e lasciando che una macchina plagiatrice faccia il lavoro duro per lui, KAYTRANADA usa il mezzo per un fine più alto: creare da zero, sperimentare, crescere. Ripulite le tracce vocali e le tastiere surreali del brano originale, perché vengano prontamente manipolate, KAYTRA si è aperto così lo spazio per dedicarsi a quel che veramente importava: la batteria, che su questa traccia raggiunge un livello superlativo. Sempre leggermente davanti al beat, sulla cui griglia inciampa regolarmente, questa batteria ha dentro di sé il tempo di J Dilla e i timbri del jazz-funk. Tutto il contrario di una scorciatoia, insomma.
KAYTRANADA è un superclassico perché non sta smettendo di esplorare, insomma. Nel disco, per esempio, lo sentiamo cantare. Non è esattamente la prima volta: lo si poteva sentire, per esempio, in LUST. di Kendrick Lamar. Ma quello che 7 anni fa era capitato quasi per caso, ora è frutto di una decisione ben precisa. È il caso di Stepped On, nata come demo per The Weeknd, con cui era in tour nel 2022: la traccia vocale che KAYTRA aveva inciso come topline e guida per Abel, è invece rimasta una volta che il brano ha cambiato destinazione. Parlando con Rolling Stone USA il produttore ha tirato fuori paragoni con la New Wave inglese riguardo a questa traccia: non solo per l’arrangiamento del brano, molto rétro ed 80s – basso glaciale scampanato; riff moroderiano di Moog; synth alti frizzanti – ma anche per l’imperfezione di una voce non educata, come non lo erano le voci di tante star dell’epoca. KAYTRANADA è un superclassico perché ci sta avvisando che non è nelle graticole perfette del ritmo e nelle giustissime intonazioni di un Melodyne che si trova la musica più divertente, più interessante, più vitale.
Infine, KAYTRANADA è un superclassico perché la sua musica sfida le facili collocazioni temporali. Certo, senza Madlib, Dilla e forse Kanye non sarebbe qui tra noi nella forma con cui la conosciamo. Ma, presa singolarmente, ogni traccia di ogni suo progetto gioca con le nostre aspettative temporali e le inganna: stiamo sentendo un sample o è solo una strumentale risciacquata in acqua ragia? I synth trombeggianti di Drip Sweat con Channel Tres vengono da un tempo remoto? La contaminazione tra le percussioni della rara di Haiti e i groove meccanici della house più rovente è esistita prima di Please Babe? E nel caso, dove l’ho già sentita? Questa capacità di muoversi tra l’ignoto e il familiare, tra il futuribile e l’ancestrale fa parte delle caratteristiche di qualunque produttore che possa essere definito davvero visionario: si tratta di trovare la giusta miscela di timbri e tempi per unire musiche altrimenti incompatibili, ed è una sensibilità, un fiuto, un muscolo che si esercita con l’ascolto vorace e omnicomprensivo, più che una tecnica. KAYTRANADA ha questo talento, e lo usa in modo esteso – forse ancora più di tutti gli altri – in questo nuovo album. Per questo è un superclassico.