Testo di Federico Pucci.
Se non ci hai fatto caso, un vibe shift sta mettendo le radici nel pop.
Gli equilibri commerciali non sono ancora cambiati del tutto, ma alcuni movimenti epocali stanno cambiando il suono, l’aspetto e il carattere delle main girls del pop – ah già, gli uomini sono del tutto scomparsi, probabilmente troppo impegnati a caricare il loro pick-up e fingersi country boys.
Si potrebbe intendere questo slittamento come un qualsiasi ciclo dei gusti: secondo alcuni sarebbe tornata l’era dell’electro, per esempio. Troppo facile così. Ci solleva dal peso di dover capire come mai un’artista eclettica come Chappell Roan sembri destinata a diventare la principale attrazione del circo pop tra questo e il prossimo anno. Adesso viviamo ancora certamente nel mondo di Taylor Swift: ma a dicembre, quando il suo multimilionario Eras Tour arriverà alla fine, cosa ci aspetterà per l’anno nuovo?
Musicalmente parlando, è tutto da vedere. Ma senza dubbio oggi più che mai risulta rilevante l’eredità di PC Music. L’etichetta/collettivo fondata da A.G. Cook nel 2013 non potrebbe aver avuto tempismo migliore per chiudere i battenti l’anno scorso con il disco e passerella finale Soft Rock dei Thy Slaughter. Non solo l’hyperpop, genere che di fatto entra nella conversazione grazie alla loro codifica, si è fatto largo nel vocabolario anche più mainstream; ma mentre scriviamo continua a crescere il numero di popstar e celebrità che sembrano aver abbracciato quell’estetica, quei suoni, quei design, quei concetti di transumanità, quella combinazione di dolcezza e pesantezza.
Tra pochi giorni capiremo se Camila Cabello sarà riuscita nella transizione da popstar di scarso carisma a “ragazza caotica” con il semplice contributo di colori fluo e poliritmi impazziti; Katy Perry in versione cyborg già sembra non avere tutta la stoffa, ma almeno ha il reparto grafico e probabilmente il sample pack di Sophie; lo stesso si potrebbe dire di Halsey con capelli rosa e sito web per i fan dall’aspetto Y2K. Insomma, dopo dieci anni, quella visione sperimentale di musica basata sull’estremismo del presente e la consolazione del ricordo, sulla plastica e sulla carne, pare aver sfondato nel mainstream. Ma a noi non deve interessare se un suono 8-bit, un certo numero di BPM o un compressore con sidechain sono tornati di moda. La cosa veramente interessante è capire quali artisti si affacceranno alla nuova era, e quali saranno i prossimi suoni del futuro che inevitabilmente rimpiazzeranno questi. E, oltre la timbrica e lo stile, come saranno questi artisti a venire?
Probabilmente saranno simili a Charli xcx, che con il suo brat di recente ha stracciato tutti i record dell’anno in termini di acclamazione critica (il suo album è il meglio recensito dell’anno, a mani basse), e quindi si trova in una posizione di visibilità e importanza culturale che non ricopriva dai tempi dell’effettivo tripudio commerciale, esattamente 10 anni fa, dai tempi di Boom Clap. (Anche le soddisfazioni “numeriche” non mancano, ma non ci ridurremo certo a fare i conti con il pallottoliere).
Questa volta, però, il riflettore non è solo puntato sulla sua figura: è proprio lei a manovrarlo. Dopo Vroom Vroom e Pop 2, dopo il mezzo fallimento di Charli, il progetto in pandemia e l’ottima riuscita di Crash, insomma dopo un decennio dedicato a sviluppare e affinare la sua voce, la sua scrittura e il suo suono, è arrivato il momento in cui tutto questo lavoro finalmente sta pagando: quel futuro immaginato è arrivato – o forse addirittura già superato. Non soltanto in termini di produzioni, ma in termini di artisticità e messaggio Charli non è mai stata così attuale ed efficace.
In parte è il merito del ciclo di vita di questo disco, cominciato con due delle canzoni migliori in assoluto della carriera di Charli come Von Dutch e 360, quest’ultima presentata con un video pieno di it-girl di cinema, moda e influencer culture (del resto, Charli è anche diventata amicona di Addison Rae). Un ciclo proseguito con una rassegna di film, come Velvet Goldmine, che l’hanno ispirata durante la produzione del disco, e con una serie di partecipazioni a podcast e TikTok che hanno messo in evidenza la volontà di mettersi in gioco e non prendersi sul serio. E coronato dal consenso che è arrivato per i suoni non più troppo d’avanguardia ma assestati in tanto gusto popolare: le tracce, prodotte dalle solite sapienti mani di A.G. Cook e EasyFun, a cui si sono aggiunti anche Hudson Mohawke, Gesaffelstein, El Guincho oltre al compagno George Daniel (The 1975), osano e spingono, fanno casino e non accampano scuse per le loro affinità con rave, electroclash e tutta la roba più brutale sulla quale sembrerebbe sconveniente commuoversi – e invece.
Insomma, Charli ha presentato una chiara alternativa all’attuale scenario pop. Arriviamo da un decennio di rigore assoluto, stoico, soffocante nella strategia di costruzione e gestione della popstar-itudine. Abbiamo accettato che le artiste pop debbano controllare la loro produzione come un generale controlla le truppe, o come un’azienda di merendine controlla gli ingredienti del suo prodotto, riproducendo l’ethos della “fabbrica” anche dentro gli home studio. E così abbiamo scambiato l’autofiction accuratamente calibrata con la vulnerabilità e l’onestà cruda e scostante che il pop è sempre stato capace di dare. Non sono passati così tanti anni dall’epoca in cui le popstar assomigliavano più a delle reduci indie sleaze come Kesha, Rihanna e la Miley di Bangerz, anziché a delle direttrici di produzione onnipotenti e onniscienti alla Taylor e Beyoncé. Charli sta riaprendo la porta di questo lungo corridoio di turbamenti, bassi titanici e melodie zuccherine. Charli sta riaprendo la porta al caos.
Non si tratta di aspirare nuovamente al tormento dell’artista: lo diceva anche Vipra nel recente disco dei Sxrrxwland che “non basta una crisi se vuoi essere Britney”. Semmai, serve dedicarsi interamente alla propria arte, cercare sempre e solo il beat migliore, esagerare, buttarsi. E, quando è arrivato il momento di “aprirsi”, farlo senza che assomigli a un ricatto emotivo, a una ricerca di attenzioni o a una banale commercializzazione della salute mentale. Solo cose vere, sì, e senza chiedere nulla in cambio. In brat Charli dimostra che il pop può e deve aspirare al parossismo e alla grandiosità, come insegnava Sophie, e senza dover mascherare la “verità”.
Nessuna traccia della nuova era di Charli mostra tutto ciò meglio dell’ultima arrivata, The girl, so confusing version with lorde. La collaborazione sembra qualcosa uscito dalla mente del più attivo shitposter del memeverso musicale: la canzone originale, Girl, so confusing, sembrava rivolgersi proprio a Lorde – così almeno era stato decretato dai detective digitali. E a più d’uno era sembrato che ci fosse anche un mezzo-beef in quella dichiarazione di distanza tra Charli, a cui piace far festa, e “lei”, a cui piace scrivere poesie. Ovviamente, bastava leggere con attenzione per capire la fragilità personale di cui Charli ci sta mettendo a parte. Non ci sta chiedendo di immedesimarci nella sua complicata non-relazione a distanza con questa ragazza: nessuno di noi fa la vita della popstar, nessuno di noi capisce i livelli di non-detto che si possono instaurare tra due artiste. Eppure, non siamo nemmeno esclusi dalla comprensione, non ce ne stiamo fuori a guardare questa scena: “it’s so confusing sometimes to be a girl” è una massima che riguarda qualsiasi ragazza sia costretta a vivere nell’attuale labirinto e camera d’eco che chiamiamo “internet”.
Le voci sono montate, e anziché rispondere con una dichiarazione Charli ha pensato bene di risolvere la questione “in studio”. Cioè invitando la persona effettivamente dedicataria del brano. Al che Lorde ci ha donato una delle strofe più potenti dell’ultimo decennio, un concentrato di tutto quello che il pop è capace di fare quando non viene trattato come un Bancomat ma come un criterio artistico. E quanto apprendiamo dalla neozelandese è che questa freddezza non è stata motivata da altro che da un dismorfia che ha reso molto difficile a Lorde uscire in pubblico, frequentare i posti di Charli, sottoporsi all’occhio indiscreto di paparazzi e curiosi. Non solo: Lorde ci dice che forse la ragazza estroversa e quella timida non sono così diverse, che anzi sono due facce di una sola moneta che l’industria musicale ama spendere per darci un senso di varietà, dinamica, differenza. E magari immaginarci una rivalità.
Un esempio di canzone pop altrettanto priva di filtro fra ciò che si dice e ciò che “è conveniente” dire in pubblico non la troverai quest’anno: due superstar aprono i propri sancta sanctorum, rivelano cosa pensano l’una dell’altra, e ne fanno un esempio costruttivo di decostruzione della fiaba tossica sulle “rivalità femminili”. La loro collaborazione, davvero un gesto di contatto umano prima ancora che un incastro discografico, ci ricorda che l’arte può essere un laboratorio di comprensione e di dialogo, uno spazio di verità. Già, verità. Anche quando manca l’identificazione diretta (nessuno di noi ha il lifestyle di Charli), anche in assenza di complicati puzzle e indovinelli per entrare nella sacra cabala dell’artista. E soprattutto, anche in assenza di quelle spie linguistico-musicali che siamo abituati ad associare a quel sostantivo così pesante: il pop è vero anche se glitcha come una cartuccia sciolta di Game Boy; è vero anche se luminoso, caotico, eccessivo. Il pop, insomma, ha moltissimo ancora da dare. Ammesso che accettiamo di ascoltarlo.
L’alternativa è considerare pop quello che la tradizione ci ha consegnato come tale: il pop come genere, anziché come metodo; il pop connotato da un’estetica che non esiste più; il pop che funziona secondo regole scritte 50 anni fa per parlare a una società radicalmente diversa nei mezzi, nei messaggi, nelle abitudini. Vivere nel passato, perché ci consola di fronte a un presente enigmatico e caotico. Non solo è umanamente comprensibile, la scienza dice che sia quasi inevitabile. Eppure non è così. Una canzone può srotolare quell’enigma, abbracciare quel caos. Una canzone pop.