Testo di Federico Pucci.
Quello che metti su internet non scompare mai, internet non dimentica. Questo, a un certo punto, l’abbiamo imparato tutti.
Ed è una cosa che deve sapere bene anche Donald Glover, che da quasi 20 anni pubblica online sketch, canzoni, dischi, semplici post, e tante volte ha desiderato schiacciare “delete” su alcune parti della sua storia professionale. Non siamo noi a dirlo, è lui stesso ad averlo scritto in una lettera (ormai famigerata) pubblicata su Instagram nel lontanissimo 2013.
Ed è comprensibile: i primi mixtape a nome Childish Gambino, usciti quando aveva 22-23 anni, e gli sketch decisamente non politicamente corretti del gruppo comico Derrick sono l’opera di un ragazzo che sta ancora cercando il proprio posto nel mondo, la propria lingua, il proprio senso.
La generazione di Donald è stata la prima a dover fare i conti con le enormi possibilità ma anche i rischi dell’accesso diretto a una distribuzione globale, priva di ostacoli, cancelli e regole interne: puoi pubblicare online quello che vuoi, ma allo stesso tempo hai pubblicato online quello che vuoi. Forse è per questa consapevolezza generazionale di artista decisamente presente online che più di una volta l’artista ha annunciato di voler mettere in cantina il nome d’arte, e ripartire da capo. Ma questa volta, quando arriverà la colonna sonora del suo prossimo film Bando Stone and the New World, in uscita il 19 luglio, l’impressione è che questo accadrà sul serio. In attesa di quel momento non troppo lontano, proviamo a rivedere cosa ha significato l’opera di Childish Gambino, e come il suo epilogo simboleggi anche la fine (in ritardo) di un intero decennio.
Prima, un po’ di contesto.
Verso la fine degli anni Zero, il rap è in una fase di transizione: Lil Wayne e T.I. spadroneggiano, la scuola trap sta per diventare qualcosa, Jay-Z è “between jobs” e Kanye sta inoculando nel genere una quantità di elettronica nel genere come non capitava dai tempi di Timbaland, se non addirittura dagli albori della hip-house o da Planet Rock. Ma al di là dei suoni, sta cambiando l’identità degli artisti e del loro pubblico. Nel gennaio 2009 è entrato alla Casa Bianca il primo presidente afrodiscendente della storia americana: questo è visto da molti se non come un momento storico per i diritti civili (si deve tuttora fare molta strada) sicuramente come riflesso di una società mutata, in cui la presenza nera non è più sistematicamente percepita come minaccios, dove le icone black sono trasversali – attenzione perché su questi concetti torneremo in tempo per la fine di questa retrospettiva. Insomma, molte cose sono in movimento. Il prossimo rapper più popolare del mondo, per esempio, non è nemmeno nato negli Stati Uniti ed è prominentemente biracial. Si chiama Drake e non è ancora così famoso, come lo è oggi, ma abbastanza perché un Donald poco più che ventenne (ma più grande di Graham) finisca per copiarlo in un mixtape poi ripudiato.
Del resto la musica “hip” negli ultimi 6-7 anni è stata piuttosto lontana dal rap: in una fase di enorme crisi della discografia (post Napster, pre Spotify), il rock indipendente dinoccolato e spesso elettronico sta prendendo piede presso un po’ tutte le demografiche. Donald è un ex studente di NYU (New York University), ex componente del collettivo di improv comedy UCB (Upright Citizens Brigade), da poco a contratto con NBC (National Broadcasting Company) per una nuova serie TV, e ha una passione piuttosto forte per questa musica indie. Quando per un po’ si è divertito a dare il DJ, ha remixato per intero Illinoise di Sufjan Stevens. Questa propensione verrà fuori anche qualche anno dopo, in una collezione di brani pubblicata in rete dove rappa sopra My Girls degli Animal Collective e chiede qualche beat a Rostam dei Vampire Weekend.
Gli anni Dieci sono appena iniziati, ma non per questo ragazzo che otto anni prima aveva scelto il suo nome d’arte su un generatore automatico di nomi del Wu-Tang Clan (se interessa, io da oggi in poi mi chiamo X-cessive Menace): in rete, dove vive la sua musica, è Childish Gambino. Un nome che nella sua ambiguità di fondo (un gangster infantile) riflette quello che sarà per sempre un tema essenziale per l’artista.
Glover ha vissuto questo dualismo sulla sua pelle: è uno dei milioni di ragazzi afroamericani sempre meno attaccati alle loro radici culturali, desiderosi di dare forma alla cultura negli anni a venire anche in virtù di queste nuove promesse di integrazione. Il personaggio di Troy che interpreta in Community è sia il jock, il figaccione della situazione, sia il nerd che vive in una dimensione parallela di culture marginali con il coinquilino Abed. Anche le canzoni di Childish Gambino comunicano in questo doppio codice, ritraendo una quotidianità sospesa tra il non essere abbastanza nero e il non essere certamente bianco. Ma a questo punto della questione, Donald non va troppo a fondo nelle possibili risposte alla sua domanda di identità: esattamente come non prende troppo sul serio la sua musica.
Un incontro piuttosto fortuito cambia questa storia e l’atteggiamento di Childish Gambino nei confronti della produzione musicale. Sul set di Community Glover fa la conoscenza del compositore della serie NBC: lo svedese Ludwig Göransson. I due si trovano e legano soprattutto per la straordinaria elasticità mentale ed estetica, che ha permesso al compositore di adattare una canzone di un cartone animato in almeno tre generi diversi, così come al rapper/attore di giostrare fra indie psichedelico e street rap. E qui si schiaccia il reset per la prima volta, si cancella buona parte di quanto accaduto prima e si riparte. Culdesac è il primo mixtape al quale Glover e Göransson lavorano insieme, e la differenza si sente. Esce di questi giorni, 14 anni fa, il 3 luglio del 2010. Per molti Childish Gambino comincia qui: la stampa specializzata si accorge di questo lavoro, e mentre sale l’hype per questo artista, double threat come Drake, i mixtape precedenti entrano nella leggenda. Si fa spazio sul tavolo a un foglio bianco per scrivere una nuova storia, ma che ha i temi di sempre, i temi del decennio appena iniziato: l’ambiguità generazionale e razziale; l’ossessione per l’affermazione personale come mezzo di scoperta di sé più che di guadagno. Il concept tiene: Culdesac è l’elemento urbanistico che contraddistingue i sobborghi, la terra dei bianchi; Childish Gambino ci sta dicendo che la sua roba appartiene ai suburbs, e ci mette in guardia dalle facili categorizzazioni. Musicalmente parlando, il salto di qualità è tale che un beat verrà pescato da Dr. Dre e proposto a Kendrick Lamar: la traccia Look Out For Detox dovrebbe finire in un album che Dre poi decide di mettere nel cassetto. Al SXSW nel marzo 2011 Gambino e Lamar rappano insieme sulla traccia, forse ignari di come avrebbero lasciato un’impronta nel decennio iniziato da poco. Un mese prima esce su YouTube il video di Yonkers di Tyler, The Creator. Il rap sta già cambiando radicalmente, e ancora lo sanno in pochi.
Non lo sa nemmeno Glover quando pubblica Freaks and Geeks, un paio di settimane dopo il citato Yonkers. Si tratta del suo primo singolo ufficiale: è il febbraio 2011, ma si potrebbe retrodatare di almeno un paio di anni, visto il debito estetico, sonoro, lirico verso il Kanye West di 808s. Glover si sta portando dietro più di un pesante bagaglio del decennio precedente. Ha firmato con un’etichetta indie, Glassnote, che in catalogo aveva Phoenix, Two Door Cinema Club, Mumford & Sons. Stando alla promessa degli anni Dieci, non ci sarebbe nulla di inusuale. Nel bene e nel male Camp, il primo album, viene appesantito da queste zavorre stilistiche: la sincerità cruda e scintillante di Kanye, la trasversalità di Beck, la disperazione dance degli LCD Soundsystem, l’inventiva lirica di Lupe Fiasco, potevano stare insieme su una playlist, ma avevano bisogno di un’ulteriore elaborazione per potersi pienamente combinare in una proposta coerente. Il primo album è come l’inizio del decennio: pieno di promesse pronte per essere tradite.
Because The Internet, uscito nel dicembre 2013, segna un passaggio ulteriore, una maturazione ma anche una discreta disillusione. Da una parte, la scrittura si fa più ambiziosa e insieme più autentica e cruda. Forse è qui che davvero dà frutto l’esperienza di stand-up dell’artista – da notare che l’ultimo special, Donald Glover: Weirdo, esce mentre sta scrivendo e incidendo i nuovi brani. Più ancora che nelle punchline e nei riferimenti metatestuali e nerd dei mixtape, in questo approccio psicanalitico si vede confluire la sintassi comica di Donald con la proposta musicale di Gambino: una personalità i cui tratti distintivi sono stranezza, ambivalenza, e la consapevolezza che dentro il continuo code switching tra mondo bianco e mondo nero si nasconde l’incapacità di riconoscersi in entrambi. C’è di più: BTI così come lo special del 2012 descrivono una internet culture senza controllo, un vero linguaggio universale che ci permette di non comunicare adeguatamente tra di noi, uno strumento potentissimo usato nel peggiore dei modi. Gambino/Glover coglie lo spirito del suo tempo, distillando un’allegoria tragicomica della vita millennial. Che sia l’inizio di una fase davvero speciale per l’artista si capisce anche da questo: i messaggi che vuole comunicare con il lavoro comico e con quello musicale collimano, e il linguaggio di un’arte si ritrova in piena coerenza con la sintassi dell’altra. Agli albori di un collasso, Donald dimostra che l’umorismo e la canzone possono descrivere al meglio il collasso appena cominciato. Sul potenziale della connessione tra comedy e musica, peraltro, arriva con anni di anticipo rispetto a molti colleghi, aprendo un campo di studi sul quale si potrebbero scrivere saggi interi – e qualcuno lo sta facendo!
Ancora più significativo da questo punto di vista è il fatto che nello stesso periodo Donald comincia a scrivere Atlanta, la serie che avrebbe debuttato nel 2016, più o meno in corrispondenza con l’uscita di Awaken, My Love!. Paragonato ai primi lavori di Gambino, questo disco sinuoso e melodico sembra sbucare dal nulla. Se non fosse che l’avvicinamento dell’artista a un R&B psichedelico e funky era partito già nel 2013: Gambino è, dopo Mac Miller, il primo rapper a ospitare su un suo album il basso di Thundercat, e la partecipazione di Jhené Aiko è l’indicazione chiara di una voglia di avvicinarsi alla melodia fratturata neo soul, e alle sue esigenze canore. Del resto, alternare rap grave e impertinente con un canto in falsetto vulnerabile è una maniera plastica ed efficace di comunicare una natura binaria e ambivalente, l’essenza profonda di Childish Gambino. L’EP Kauai nel 2014 ci permette di unire i puntini: sentiamo il lato più morbido del carattere dell’artista, che gioca con i suoni “retro” (titolo di una traccia peraltro), sperimentando in direzioni diverse alla ricerca di suoni, dal pharrellismo di The Palisades al remix pseudo balearico di 3005 (la sua prima hit) con melodia chipmunk Blonde-prima-di-Blonde. Al momento dell’arrivo quasi simultaneo della sua acclamata e premiata serie originale e del suo terzo acclamato e premiato LP (a questo punto pubblicato da una major, RCA), Gambino/Glover è pronto con una nuova estetica e sta per raccogliere i frutti di questo lavoro di ricerca.
All’apice del decennio di Gambino l’artista ha colto al volo un altro motivo dominante dell’epoca: la perdita delle radici come impossibilità di immaginare un futuro se non riconquistando il passato. Questo è, in essenza, il succo di una nostalgia che nella seconda metà degli anni Dieci diventa tossica, non più simpatica retromania di vecchi tromboni ma disperato rifugio per adulti giovani, terrorizzati dal presente. La musica sta cambiando, i millennial non sono più imberbi e l’era Obama è finita nel peggiore dei modi, con una restaurazione impettita e un rifiuto violento di tutto quello che è stato costruito. Anziché colmare la voragine apertasi nella società (o forse mai veramente chiusa), una parte di artisti afroamericani provano la via estrema, calcando la mano sulle differenze e ripescando temi come l’afrofuturismo. Nella musica c’è un richiamo agli anni ‘70: il sound di Gambino si avvicina sempre di più a Funkadelic, Sly and the Family Stone, Bootsy Collins, mettendo in luce la carica esplosiva, innovativa, cosmica di quella musica che ha provato a proiettare le coscienze nere nel domani. Nella storia di Atlanta, intanto, c’è la volontà di tornare all’origine di tutto. Quei luoghi dell’infanzia e della giovinezza, abbandonati inseguendo la speranza millennial di contare qualcosa nel mondo (nel mondo dei bianchi di Princeton), sono la via di uscita dalla crisi. In entrambi i casi, si tratta di un reset: il decennio si sta crepando davanti ai nostri occhi, e servono soluzioni drastiche. Gambino/Glover in entrambi i casi individua la domanda che tutti si pongono alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump nella Casa Bianca, poco più di un mese dopo l’uscita di Awaken: e ora che è tutto andato alla malora, cosa si fa?
Basta osservare con cura quel disco e si può intravedere già una direzione del discorso, una chiave di lettura per la società: l’horror. In un brano Gambino, ad esempio, immagina il sistema dell’industria culturale come una massa di zombie che divora la creatività di un artista afroamericano, non per mangiare il cervello, ma il profitto. In un altro brano incita più o meno apertamente una rivolta. E poi, parla del “boogieman” (gioco di parole tra “boogeyman” e “boogie”): l’uomo nero – è proprio il caso di dire – è l’oggetto misterioso con il quale la società bianca coltiva un rapporto ambiguo (di nuovo!), accettandolo come intrattenitore e giullare, ma scacciandolo e punendolo nel momento in cui questi si esprima come forza sociale e individuo dotato di autonomia sul proprio corpo. Un paio di mesi dopo sarebbe uscito Get Out, ma i temi sono già qui. Temi che saranno espressi in modo ancora più palese in This Is America, nel maggio 2018: la disillusione è completa, il sogno è finito, e mentre siamo nel mezzo dell’incubo, lottando per la nostra vita, mostriamo al mondo intero l’ipocrisia di un Paese mai maturato oltre la schiavitù nera. È il primo singolo al numero 1 per Gambino, una canzone-fenomeno che arriva nei quattro angoli del pianeta parlando di violenza della polizia. E facendo questo, approfondisce ulteriormente il solco tra l’America trumpiana e quella nera: da una parte il balletto si ispira alle danze dell’Africa occidentale, quell’area del continente da cui molti antenati degli afroamericani furono rapiti per essere venduti come schiavi; dall’altra la musica fonde beat trap e suoni afrobeats, tenendo peraltro insieme due trend cruciali per capire la parte finale del decennio. Insomma, se l’America bianca vuole partecipare a questa tetra festa, deve accettare l’identità africana.
Il successo commerciale e critico di questo brano (4 Grammy) e quello di Atlanta (due Golden Globe, un Peabody, svariati Emmy) permette a Donald di chiudere i suoi anni Dieci diradando le uscite, sperimentando con progetti non proprio a fuoco (Guava Island, che è comunque il progetto artistico più consistente di Rihanna negli ultimi 8 anni). Quando a sorpresa nel marzo del 2020 arriva 3.15.20, la morbidezza glaciale di questo disco a sorpresa sembra un panno fresco per placare la febbre di un mondo nel pieno della pandemia. Avremmo saputo solo quattro anni dopo che il disco era stato pubblicato frettolosamente: in quel momento il piano di Glover di ritirare per sempre il brand Childish Gambino era stato rovinato (uno dei molti piani stravolti dal Coronavirus), e quell’uscita ebbe soltanto il sapore della sperimentazione e del gioco – peraltro meritatissimi, dopo 15 anni di duro lavoro. Rilavorato con calma e con le possibilità di un mondo non più in lockdown, quel progetto diventa Atavista e mette a fuoco alcune delle sue intenzioni, l’ultimo messaggio degli anni Dieci ai posteri. Il disco abbraccia di nuovo la stranezza inafferrabile di Glover; esprime nel sound l’ambiguità di un prodotto insieme conturbante come Prince, minaccioso come Sly, snodato come entrambi; riallaccia Bino con i synth dei primi anni Dieci; porta sotto lo stesso tetto artisti del mainstream bianco come Ariana Grande e del mainstream nero come 21 Savage. Insomma, prova a fare sintesi di quanto espresso in un decennio e mezzo, ricordandoci che prima di iniziare qualcosa di nuovo dobbiamo fare i conti con il nostro passato. E, se serve, riscriverlo completamente da capo. Come lui stesso ha fatto più di una volta.
Il tempismo di Glover è nuovamente eccezionale. Se veramente la colonna sonora di Bando Stone sarà la fine di Childish Gambino come promesso, allora tra l’estate 2024 e l’inverno 2025 assisteremo a un passaggio storico: il tour, in arrivo a Milano il 2 novembre, sarà il giro di campo alla fine del match, probabilmente memorabile e imperdibile proprio per questa ragione, il funerale vichingo non solo di un moniker, ma di un’epoca.
Tre giorni dopo la data di Milano, il 5 novembre, si terranno le elezioni presidenziali americane. Sia che torni Trump, sia che si confermi Biden, proprio nella sua ostinata ripetizione, nell’impossibilità di immaginare un futuro alternativo, il vecchio mondo sta sgretolandosi rovinosamente davanti ai nostri occhi, per colpa del nostro eccessivo attaccamento a quello che siamo stati. Se l’America vuole guardare avanti, forse dovrà fare come Donald Glover: buttare al vento le proprie eredità così preziosamente custodite e, in un’ultima celebrazione, far deflagrare il passato per proiettarsi lontano. E così, con quattro anni di ritardo, concludere finalmente uno dei decenni più complicati della storia.