Testo di Federico Pucci.
Partiamo da un concetto che le neuroscienze hanno sottolineato più e più e più e più volte: nessuna canzone ci piacerà mai come ci sono piaciute le canzoni che abbiamo ascoltato e amato durante l’adolescenza o la prima età adulta.
Ciascuno studio rileva un’età o l’altra come particolarmente fertile per l’attecchimento di memorie emotive musicali, ma il senso del discorso resta quello: le canzoni di quando eravamo giovani non si battono, e la ragione – detta in breve – è che sono esperienze sociali e culturali legate alla fase in cui il nostro cervello in sviluppo associa una serie di segnali verbali e sonori alla costruzione dell’identità. Insomma, non ci puoi fare niente. E dato che nessuno di noi può tornare indietro nel tempo e fare curatela musicale della propria giovinezza, siamo costretti a riverire quei ricordi per sempre.
Per me, ad esempio, l’apice assoluto della musica potrebbe essere stato la prima volta in cui ho inserito nel mio stereo portatile Nokia giallo-rosso-verde-blu della prima comunione la compilation rossa del Festivalbar 1998 nuova fiammante. Una cassetta doppia ottenuta assillando mia madre mentre facevamo la spesa all’Esselunga di viale Roma a Massa. Nessuna esperienza musicale raggiungerà mai lo stesso piacere purissimo di affermare la propria identità con una raccolta di canzoni viste in televisione tra una fetta di cocomero e una focaccina. Potrei far risalire a quella collezione di tracce disparate la radice del mio gusto più variegato di un gelato Carte D’Or o la mia propensione per le contaminazioni. Sono sicuro che chi sta leggendo ha avuto esperienze simili, o magari paragonabili ma molto più “onorevoli” e illuminanti: un imprinting musicale a base di Beatles e Bach, Bowie e Battiato, Black Sabbath e Battisti (perché tutta la musica migliore inizia con la B?). Ma una cosa non cambia: tutti quanti proviamo piacere nel ritornare a quella memoria. Quella musica potrà anche aver formato il nostro gusto, ma come possiamo conciliare la nostra immagine di oggi con quella Polaroid sempre più sbiadita? Come possiamo tornare uguali al ritratto perfetto di noi che si trova in soffitta? Non possiamo. Basta andare a un “reunion tour” o a un evento musicale retromaniaco (ne esistono per ogni decennio) e guardarsi intorno. Rimettere su quella musica non farà che sottolineare questa distanza incolmabile tra le due immagini. Sei vecchio, arrenditi.
In un articolo ripreso un paio di anni fa dall’Atlantic, l’autore, storico e critico musicale Ted Gioia ha sostenuto che “la vecchia musica sta uccidendo la nuova musica”. A riprova di questa opinione Gioia presentava un grafico che mostrava la crescita del catalogo nella percentuale generale dello streaming negli Stati Uniti. Per catalogo si intende tutta la musica più vecchia di 18 mesi, un anno e mezzo SOS di SZA? Catalogo. Il fatto che questo disco sia ancora tra i 20 più ascoltati in America ci parla della sua bontà, o della volontà del pubblico di rimanere ancorato a quell’era beata che fu il dicembre 2022? Un po’ entrambi, perché siamo talmente immersi in una narrazione apocalittica sulla fine (climatica? bellica? politica? civile?) del mondo, da ritrovarci a idealizzare anche l’altroieri. Ma in nessun caso questo giustifica l’idea di costruire un’estetica basata solo sul passato: gli eccessi della vibe Y2K, per esempio, sono evidenti a chiunque abbia vissuto in prima persona i Duemila, quando le stampe in italics sulle magliette saranno state sicuramente di moda me erano già considerate di pessimo gusto. E quando tanta, tantissima musica andava e veniva senza che i più se ne accorgessero. Perché – forse te lo stavi chiedendo- no, la musica non è peggiorata.
Di recente, il creator di ambito critico-musicale più seguito al mondo, l’americano Rick Beato, ha lanciato una delle sue ennesime campagne di retroguardia sul destino della musica popolare: due settimane fa, il suo video “The Real Reason Why Music Is Getting Worse” (2,5 milioni di visualizzazioni al momento) sosteneva che i progressi tecnologici che hanno facilitato la produzione musicale sono responsabili della pigrizia con cui certe canzoni vengono concepite e arrangiate e dell’omogeneità indistinta del risultato. E si può anche essere d’accordo con quest’idea – per quanto risulti miope ignorare il lavoro straordinario che artisti di ogni genere hanno creato giocando intorno alla quantizzazione, all’oversampling, alla digitalizzazione e così via, da J Dilla a Burial. Ma il punto cieco che non riusciamo a vedere, il piano scosceso che guida le nostre opinioni in modo fallace, non è questo: è che la musica popolare (di qualsiasi genere e stile) ha sempre teso verso l’omogeneità. E, se proprio vogliamo usare le classifiche per stabilire il contributo di ciascun’epoca alla grande storia della musica, vi riscontreremo le stesse tendenze all’uniformità, la stessa prevalenza del banale rispetto al geniale: è il mercato.
I musicisti del passato, e i loro ascoltatori, non erano esseri sovrumani. Le lamentele che una parte del pubblico di una volta poneva, preoccupandosi dell’intrusione della tecnologia nell’arte, ci sembrerebbero più che assurde oggi: l’introduzione del microfono a condensazione poco più di un secolo fa suscitò le critiche di chi non accettava cantanti privi di grande proiezione vocale, quelli che abbiamo chiamato crooner e che fondendo repertorio popolare, Broadway e jazz hanno contribuito enormemente allo sviluppo di un suono “americano” così determinante per tutta la musica globale; l’arrivo degli arpeggiatori nei synth ha suscitato critiche da parte di chi pensava che l’arte di suonare le tastiere non sarebbe sopravvissuta agli anni ‘80. Nessuna di queste previsioni catastrofiche si è avverata, e mentre persone prive di talento hanno usato e continuano a usare i trucchi del mestiere per trovare un facile successo, le persone creative continuano a darci musica preziosa. Un discorso a parte si potrebbe fare per le cosiddette “intelligenze artificiali generative”, che astraggono la creazione artistica da ciò che si è sempre inteso per “ars”, cioè la tecnica di creazione, ma questo lo teniamo per un altro giorno.
Con l’argomento tecnologico messo da parte, quindi, resta il gusto. E su questo, non si può lottare contro la natura. Se la tua esperienza di ascoltatore è stata determinata dalle volte che hai sentito Marvin Gaye nell’autoradio dell’auto dei tuoi genitori, così sia! Esistono decine di artisti ispirati (direttamente o indirettamente) dalla sua particolare forma di R&B, che si tratti del versante più melodico, delle sue propensioni politiche o del suo senso del groove: in questo momento, per esempio, potresti ascoltare l’ultimo album dei SAULT pubblicato nel week-end.
Ogni volta che scegliamo cosa ricordare del passato, dobbiamo essere consapevoli che la parte che decidiamo di conservare è solo una minuscola fetta, sezionata con estrema cura. Solo così potremmo determinare onestamente il nostro rapporto con quel che c’è di nuovo. “Onestamente”, perché non saremo tentati dal giudicare gli artisti di oggi in base a criteri e standard irrealistici, e che non applichiamo agli artisti del passato. Facciamo un semplice paragone con la band più idealizzata dell’era classica del rock: i Beatles. Le canzoni oggi si fanno troppo velocemente? E quanto ci ha messo Paul McCartney a estrarre fuori dal cappello Get Back? Gli artisti di oggi inondano di singoli il mercato e occupano posizioni a prescindere dal loro interesse artistico? Lascia che ti presenti il Big Bang della Beatlemania, quando i nostri hanno pubblicato quasi un singolo al mese per almeno due anni (‘64-65). I discorsi sugli artisti di oggi sono tossici, e le fandom non si gestiscono più? Non abbiamo la controprova, ma basandosi sui materiali di archivio disponibili è facile ipotizzare che se Instagram, Facebook e Twitter fossero esistiti nel 1966 avremmo assistito a spettacoli di altrettanto imbarazzo. E stiamo parlando di una band che ha prodotto musica di rara genialità: nello stesso periodo la canzone più acquistata (ai tempi si pagavano i singoli, pensa te!) in America nel 1965 era Wooly Bully, un 12-bar blues decisamente dimenticabile. Se trasportassimo questo esercizio intellettuale su un decennio più vicino – chessò, agli anni ‘90 della dance commerciale, o agli anni ‘00 dell’europop – i risultati non cambierebbero, a meno di non scambiare la nostra memoria parziale con la storia.
Insomma, guardando le cose in prospettiva, ridimensionando sia i successi delle star archeologiche che amiamo sia il significato dei grandi numeri sbandierati nel presente, dovremo concludere solo così: non esistono epoche d’oro irripetibili. Anche quella Compilation Rossa del Festivalbar ‘98 era tutt’altro che una collezione perfetta: già allora non potevo skippare abbastanza velocemente (ed era dura, con le cassette) per arrivare alla prima canzone degna di essere sentita in repeat, e inserita nei miei primi mixtape casalinghi – parlo di Never Ever delle All Saints, naturalmente. Non c’è un’età dell’oro, c’è la musica, che crea e ricicla idee e suoni senza soluzione di continuità in una tensione continua tra novità e abitudine; che nasce in un conflitto di attenzioni con le nostre tendenze nostalgiche naturali; che approfitta della tecnologia per velocizzare i processi; che mette in discussione il nostro gusto, giorno dopo giorno. E quando il passato e i suoi successi vengono idealizzati – come nel caso del cattivo uso del sampling e dell’interpolazione nelle canzoni pop contemporanee che cercano di ripescare pigramente successi d’archivio – si sente chiaramente che qualcosa non va, che il giochino della nostalgia non funziona più: perché si può essere nostalgici, ma non si può costruire qualcosa di bello se non rapportandosi in modo sincero con questa propensione.
D’altronde, a scanso di equivoci, bisogna anche dire che non siamo nemmeno obbligati a sentirci sempre supergiovani: abbiamo il diritto di non capire perché ai ragazzi piaccia una cosa che ci lascia del tutto indifferenti, o addirittura ci irrita. Anzi, in un occidente dove la percentuale degli under-30 è sempre minore, sarebbe anche il caso di non considerare l’adolescenza come unico target e come sede ultime della creatività musicale. Eppure, se usiamo come criterio di ascolto la curiosità anziché il paragone, se ci apriamo all’empatia nei confronti del nuovo e diverso anziché chiuderci nella comfort zone delle esperienze pregresse, di quello che conosciamo a memoria, forse potremo davvero approfittare del più interessante degli effetti della musica: abituarci ad ascoltare gli altri. E sappiamo bene quanto sia utile, in tempi polarizzati come i nostri.