Testo di Federico Pucci.
Cosa succede quando migliaia di musicisti, compositori e produttori d’un tratto parlano la stessa lingua? La domanda vorrebbe essere retorica, ma se non ha realmente una risposta è perché chi l’ha formulata non sembrava averne di buone in serbo. Va detto che è una domanda che non ho posto io, ma l’agenzia pubblicitaria che nel 1989 fu assoldata da Korg per celebrare il successo straordinario della tastiera M1, quella che nel giro di un anno – a detta degli executive dell’azienda – era diventata il synth più venduto al mondo. Beh, cosa succede quando la lingua musicale si unifica? Col senno di poi possiamo dire che accade una massiccia omologazione dei suoni e delle soluzioni timbriche e ritmiche, ma lasciamo che sia la storia di questo leggendario strumento a spiegarlo per bene.
Il Korg M1 vede la luce nell’estate 1988 e già nelle primissime recensioni sembra chiaro che il suo destino sia vivere all’ombra del Roland D-50, freschissimo modello del marchio di Osaka e nuovo potentissimo contendente nella gara della nuova era digitale lanciata da Yamaha con il DX7. Ma le capacità dell’ultimo arrivato erano già chiare ai primi osservatori. La soluzione timbrica dell’M1 è un sistema chiamato AI (Advanced Integrated): il motore di questa macchina combina tra le altre cose i sample PCM a 16 bit di 100 strumenti e 44 percussioni con la sintesi digitale di due oscillatori a sostegno e per aggiungere complessità (con riverbero, chorus, delay e la possibilità di aggiustare l’intonazione del secondo oscillatore), a cui si aggiungono forme d’onda aperiodica e una cura particolare per la dinamica del tocco, che rendono particolarmente “credibile” l’attacco delle note ma allo stesso tempo surreale e fantastico il corpo della nota. Tutto ciò, insieme a due set di effetti digitali modulabili e di ottima qualità e alla possibilità di sovrapporre fino a otto timbri, si accompagnava a inusuali capacità di programmazione, come un sequencer MIDI a otto tracce in grado di riprodurre fino a 7700 note e particolarmente utile per creare loop come in una drum machine: tutto ciò spiegava bene l’appellativo di fabbrica “workstation”, dal momento che idealmente si sarebbe potuto usare l’M1 come uno studio di registrazione in scatola. Questo avrebbe contribuito in modo decisivo a cambiare la pratica e la filosofia della produzione musicale, sempre più slegata dai grandi studi e dalle costose strutture del passato, e sempre più pronta a vivere in un futuro digitale più raccolto, quasi domestico. Ma nella seconda metà degli anni ‘80 la gara si vinceva ancora sui preset e sulla possibilità di eventuali espansioni: in entrambi i casi Korg prometteva (e manteneva) moltissimo. Ed eccoci, alla fine di questo excursus, con le ragioni del successo dell’M1, ma anche la sua particolare maledizione.
Le caratteristiche di questo strumento lo resero ben presto molto ambito, tanto dal pubblico dei professionisti quanto da quello di aspiranti e amatori (dotati di un discreto budget, perché il costo iniziale superava i 2000 dollari). I Cure lo ebbero a lungo nel loro parco tastiere, i Pet Shop Boys pure, Joe Zawinul se ne innamorò, Battiato lo usò di frequente e i New Order vi registrarono quasi per intero Republic, forse anche per la fretta con cui portarono a chiusura quel disco, approfittando quindi delle molteplici capacità della workstation. È difficile trovare un disco pop dei primi anni ‘90 senza almeno un tocco di M1: c’è il preset “Ooh/Ahh” nei coretti di I’m Going Slightly Mad dei Queen; il “Grand Piano” che suona l’inciso memorabile di Children di Robert Miles; e in You Gotta Be di Des’ree vengono sovrapposti il piano con una chitarra acustica che spicca soprattutto nell’intro. Proprio questo pianoforte (il preset 01 “Piano 16”), con il suo tintinnare metallico quasi da campana, è uno dei due suoni dell’M1 che hanno fatto la storia.
Questo piano avrebbe avuto una sorte molto particolare: lo puoi sentire in The Way It Is di Bruce Hornsby, e quindi in Changes di 2Pac che campiona pesantemente quel brano. Il suono tanto scintillante da sembrare irreale non incontrava i gusti di tutti, ma aveva la giusta combinazione di realismo e fantasia da finire in buone mani quando Bon Iver lo riprese e utilizzò massicciamente nel suo secondo omonimo album del 2011 – in particolare in Beth/Rest. Il valore di questo suono in questo contesto è lo stesso di uno spettro: una reminiscenza fantasmatica che perseguita il presente anziché informarlo di senso. Vernon ci ricorda, insomma, che il recupero di una spia così chiaramente legata a un tempo passato non esprime necessariamente il desiderio di tornarci, un’adesione stilistica tout court, ma piuttosto la traccia indelebile di ciò che è irrimediabilmente andato sul presente. Questo rende affascinante ripescare suoni così chiaramente invecchiati. E la storia più celebre di questo preset lo dimostra.
La grana del piano, così brillante e percussiva in tutti i preset, lo faceva spiccare in parti ritmiche squillanti dove contrasta con bassi rotondi e voci ruggenti: “Piano 8” suona nella hit italo house Ride On Time dei nostrani Black Box del 1989 e in I’ve Been Thinking About You dei Londonbeat del 1990. A giudicare dalla gran parte di produzioni tangenti la dance del periodo, parrebbe quasi che l’attacco del piano, così netto e vivace, abbia spinto i compositori a scrivere parti ricche di staccati, dove più che suonate le note sembrano conficcate per terra. Così è nella versione house narcotica di Only Love Can Break Your Heart con cui i Saint Etienne si presentarono al mondo nel 1991. Ma il caso più celebre è la parte di piano ritmico nel ritornello di Vogue di Madonna, brano che contribuì a cementare la credibilità dello strumento per la musica da ballare e allo stesso tempo la sua popolarità, grazie all’endorsement della più grande popstar del pianeta. Un paio d’anni dopo, sarà un altro pianoforte molto simile (il preset “Magic Piano”) a dettare la melodia che si intreccia dentro Rhythm Is A Dancer dei tedeschi Snap!. Ma il dominio schiacciante di questo synth sul dancefloor proviene da un altro preset: il suono “Organ 2”, sorretto da un sustain surreale e spinto da un attacco penetrante, ha potuto svolgere diverse funzioni sulla traccia, andando a coprire ruoli ritmici nel registro alto o in quello basso, oltre ad avere parti melodiche e di accompagnamento. In particolare, la linea di basso di Show Me Love di Robin S del 1993, uno dei riff più memorabili della musica popolare tutta, è stata eseguita proprio con questo preset, cementando così il suo ruolo dentro la musica da ballare, specie se di ascendenza house. Ma non si tratta del primo brano ad averlo usato in modi paragonabili: si sente ad esempio nel groove acuto di Please Don’t Go, cover resa più celebre dell’originale dagli spezzini Double You (1992), e prima ancora nel riff che sostiene Gypsy Woman (She’s Homeless) dell’americana Crystal Waters, perla assoluta del ‘91 a metà fra il pop liquido e la deep house che peraltro nel famigerato ritornello (“La da dee, La da da”, forse interpolazione ante litteram?) fa rientrare dalla finestra anche il suono di pianoforte.
Riutilizzare questi suoni oggi (o emularli con il potere delle moderne Digital Audio Workstation) è più che un omaggio: è quasi un atto di cosplay. Il basso suonato con l’organo fa capolino in 1999 di Charli xcx e Troye Sivan, una canzone dichiaratamente nostalgica, che – volutamente? – mescola l’anno del titolo con simboli della seconda metà del decennio (TLC, Britney Spears, Backstreet Boys, Spice Girls) e un suono così chiaramente antecedente a tutto questo. Come se, fra le righe, la canzone ci stesse dicendo che non c’è troppo da fidarsi della nostalgia. Un atto di manipolazione della memoria ancora più curioso, però, lo compie Beyoncé in Break My Soul. Il beat del primo singolo da Renaissance combina l’organo come basso di una Show Me Love, il piano percussivo di una Ride On Time e la centralità vocale di una Gypsy Woman. In questo caso, potremmo considerarla una dichiarazione d’intenti ecumenica: tutta la musica dance elettronica deve le sue origini agli artisti afroamericani che ne furono pionieri. Un atto che cerca di conciliare memoria e storia. Ma che finisce per sembrare solo un grande omaggio agli anni ‘90.
Quando abbiamo parlato di vecchi synth che si riaffacciano nella musica contemporanea abbiamo sempre sottolineato come, oltre la banale rievocazione nostalgica, dietro il recupero di uno strumento vintage (o di un emulatore!) si celasse un genuino interesse al confronto. Gli artisti contemporanei, cioè, vogliono scrivere qualche nuovo capitolo di una storia musicale onorevole, mescolando memorie ancestrali del pop d’altri tempi con le possibilità sterminate della sintesi del suono. Ma la fortuna dell’M1 può aver reso impraticabile questa strada? Quando Korg distribuì questo suo assoluto bestseller prese una decisione al tempo inusuale: vendere in tutti i mercati locali la stessa versione dello strumento, con i preset di fabbrica globali e non regionalizzati da programmatori del posto. A meno di un anno dall’uscita l’azienda di Osaka poteva vantarsi di aver fatto parlare a tutti la stessa lingua musicale: ma il prezzo dell’omologazione, come di qualsiasi moda, è la condanna a rimanere chiusi nell’epoca di massimo fulgore.
Non possiamo però neppure dire che l’M1 non abbia più alcun valore al di là dell’esplicito recupero, e non solo perché il mercato delle card di espansione con nuove patch non si è ancora spento. Roy Bittan ha suonato lo storico Korg, a quel punto già ampiamente superato, in The Rising per dare a Bruce Springsteen un tappeto di cori angelici e organi grezzi, molto probabilmente sfruttando la capacità multitimbrica del synth. Damon Albarn ha un posto speciale per questo strumento, e lo si può sentire in lungo e in largo dentro il suo album di dieci anni fa Everyday Robots – fai caso a quella specie di organetto nella seconda strofa di The Selfish Giant – forse proprio per la povertà di fondo che in prospettiva assume un banco suoni così usato e abusato per tanti anni.
Dando anche un’occhiata al nostro Paese vediamo un M1 tra i credits di Bar Mediterraneo dei Nu Genea, progetto che senz’altro gioca con le illusioni spaziotemporali, ma nel loro pastiche lo strumento in esame non spicca più degli altri, ma contribuisce a costruire un’idea terza di tempo, né passato, né futuro ma presente, l’unica dimensione del resto in cui sperimentiamo l’arte musicale. E poi la canzone M1 dei Policrom nell’album La vita degli altri, prende il nome proprio dal Korg per via dell’uso di un suono della sua banca, un banjo – come raccontavano il duo e Cosmo, produttore del disco, proprio su queste pagine 8 anni fa: anche qui, se c’è un intento archeologico, non è evidente. Un discorso a parte meriterebbe la sua intrusione nella cumbia messicana moderna, dove tuttora è uno strumento centrale e si contende il predominio con il Roland D-50 come se gli anni ‘80 non fossero mai finiti!
E in fondo, anche l’esempio già citato di Bon Iver ci dice che questa libreria di suoni ha ancora qualcosa da dare: non solo l’M1 è protagonista in altri singoli del suo acclamato secondo album (senti l’organo in Towers e il pad ultraterreno in Calgary, senza contare Minnesota e Lisbon), dove il riverbero intenso e la lucentezza di timbro sembrano quasi tradurre in linguaggio pop l’armonica del folk; ma a ben vedere, questa tastiera non ha più abbandonato la sua produzione, come si può sentire nella fittissima trama di parti di 33 “GOD” o nel groove di pianoforte smaterializzato di Naeem. Solo accogliendo a braccia aperte l’aspetto fuori moda di questi timbri e usandoli costantemente fuori contesto si può redimere uno strumento che altrimenti rimarrebbe intrappolato nella sua epoca, tanto glorioso quanto dimenticato. Fino al prossimo revival.