Testo di Samuele Bozzini
Il resoconto della leggenda di Robert Johnson apre le porte a uno scenario desolato. I fatti narrati da Edward George raccontano di come il bluesman avrebbe venduto l’anima al diavolo presso un crocevia nel Deep South, in cambio di riuscire a padroneggiare il blues. Il documentario The Last Angel of History ricontestualizza il mito faustiano di Johnson, descrivendo il blues come una primitiva “black technology” capace di mettere in atto una rivoluzione culturale. Tale idea è sostenuta dall’eccezionale influenza che il blues ha avuto sullo sviluppo di numerosi generi musicali e fenomeni culturali del Novecento; in particolare il jazz, il soul e l’R&B.
Il documentario si basa su un impianto metanarrativo in cui lo sceneggiatore, Edward George, interpreta il Data Thief: una misteriosa figura itinerante proveniente dal futuro. Il suo obiettivo è di cercare una black technology simile a quella che Johnson era riuscito a ottenere in passato. Il Data Thief si imbarca dunque in un viaggio nel tempo e nello spazio alla ricerca della chiave per il futuro. Il suo unico indizio è una frase: Mothership Connection.
Il viaggio del Data Thief comincia dal pioniere del funk George Clinton, in particolare dal suo disco del 1975: Mothership Connection. Il disco unisce il funk a un estetica extraterrestre e rappresenta sia sonoricamente sia esteticamente la visione di Clinton, che afferma: “I needed to find a place where you hadn’t perceived black people to be”. Secondo il critico Kodwo Eshun la Mothership Connection rappresenta simbolicamente l’unione tra il funk e il cosmo; tra il passato dei discendenti della diaspora africana e il loro futuro, tra un’Africa pensata come un continente perduto nel passato, e un’Africa osservata dalla prospettiva di un ipotetico futuro Sci-fi.
Il viaggio del Data Thief continua alla scoperta di due figure contemporanee a George Clinton: Sun Ra e Lee Perry. Sun Ra, a capo della sua Arkestra e Lee Perry, a capo della sua Black Ark rappresentano due esempi pionieristici e fondamentali dell’uso estetico di una mitologia legata al cosmo e all’extraterriestralità all’interno di un contesto performativo e musicale. La musica è, nella visione dei due artisti, uno spaccato dell’universo attraverso la quale esplorare il futuro. Secondo John Corbett si può osservare come George Clinton, Sun Ra e Lee Perry abbiano impiegato un simile immaginario, una simile mitologia dello spazio, un simile uso di alcuni topoi legati alla follia e all’extraterrestrialità, così come un analogo uso di elementi iconografici Sci-fi all’interno di diversi generi — Sun Ra nel jazz, George Clinton nel funk e Lee Perry nel reggae — appartenenti alla cultura afroamericana; perdipiù senza venire mai formalmente in contatto. Gli sforzi di Clinton, Sun Ra e Perry rappresentano le prime forme di espressione della corrente culturale che negli anni novanta avrebbe poi preso il nome di Afrofuturismo.
Il termine Afrofuturismo, coniato nel 1994 dal critico culturale Mark Dery, si pone di descrivere quindi quel movimento culturale e artistico che mette in relazione fantascienza, tecnologia e diaspora africana. L’Afrofuturismo disgrega le narrative conformiste che avevano inglobato buona parte del panorama culturale black (soprattutto in ambito musicale) nel corso degli anni Settanta e Ottanta, sovverte le aspettative e offre una lettura moderna del ruolo della comunità afroamericana all’interno della società. Gli elementi di finzione all’interno del movimento sono spesso metaforici e hanno come obiettivo raccontare la realtà sociale afroamericana, come precisa lo scrittore Samuel R. Delany:
“Sci-fi doesn’t try to predict the future but offers a distortion of the present”.
Secondo lo scrittore Greg Tate, il soggetto all’interno della letteratura Sci-fi è solitamente un individuo in conflitto con un sistema oppressivo, la cui storia è caratterizzata da dislocazione culturale, alienazione e straniamento. In questo senso uno dei principali obiettivi dell’Afrofuturismo è di osservare la storiografia del popolo afroamericano attraverso le convenzioni tipiche della letteratura Sci-fi (rapimenti extraterrestri, alterazioni genetiche, esodi interplanetari, colonizzazione spaziale).
Dopo aver compreso che la linea che divide Sci-fi e realtà sociale non è altro che un’illusione ottica, il Data Thief si muove verso la metà degli anni Ottanta dove incontra Derrick May e Juan Atkins. I due pionieri della techno spiegano che l’obiettivo della loro musica è di portare avanti la rivoluzione tecnologica cominciata dai loro predecessori. Atkins spiega che il punto di svolta è stato per lui la sua scoperta del sintetizzatore. Il synth rappresentava per Atkins il mezzo attraverso il quale creare quei suoni futuristici che aveva sentito nella musica di George Clinton, Sun Ra, Yellow Magic Orchestra e Kraftwerk. Proprio dai Kraftwerk il trio di Belleville (May, Atkins, Saunderson) svilupperà il proprio ethos, ossia esprimere l’unione tra uomo e macchina; trovare umanità all’interno della tecnologia.
Un’altro aspetto importante delineato dal documentario è quello della multiculturalità. In questo senso Detroit, intesa come città-simbolo, è di fondamentale importanza. La techno viene descritta come una diretta espressione della gioventù urbana di Detroit; della loro esperienza di vita all’interno di una città in declino, della loro voglia di cambiamento. La techno nasce nel contesto sociale dei quartieri residenziali americani: la cosiddetta inner city, analogamente ad altri generi appartenenti alla cultura black come il blues e l’hip-hop. La techno è una diretta espressione dei luoghi decadenti in cui è stata prodotta, dell’innovazione tecnologica, dei sentimenti di alienazione e straniamento vissuti dalla gioventù urbana di Detroit e del bisogno di appartenenza che anima i fondamenti dell’Afrofuturismo. Il produttore Clifford J. Price, tuttavia, sottolinea anche come la musica proveniente dall’inner city sia stata caratterizzata da una libertà e una capacità espressiva uniche, questo grazie alla moltitudine di culture presenti al suo interno a cui fare riferimento e a cui ispirarsi.
Arrivato negli anni Novanta il Data Thief viene in contatto con il già citato Clifford J. Price, in arte “Goldie”. Price introduce il Data Thief alla jungle. La jungle viene descritta come una risposta all’ambiente urbano accelerato delle grandi città inglesi, mediato dall’uso delle nuove tecnologie. A riguardo il produttore Gerald R. Simpson in arte “A Guy Called Gerald” commenta come la jungle abbia trasformato un genere — la techno — ancora legato fortemente a mezzi analogici in un qualcosa di completamente digitale. Gli stessi ritmi sincopati di cui la jungle fa uso sono retaggi, mutazioni di ritmi di origine africana digitalizzati e manipolati al fine di ottenere suoni mai sentiti prima. La jungle riesce a continuare quanto iniziato dalla techno, prendendo a piene mani dal breakbeat, dall’hip-hop e dal reggae, consolidando così l’importanza della black culture nello sviluppo della musica elettronica. Kodwo Eshun evidenzia in particolar modo la sovversività di techno e jungle come generi musicali “immaginari”, ossia non legati in alcun modo alla strada — intesa da Eshun come luogo sociale — o al palcoscenico, ma esclusivamente alla produzione in studio, dunque per questo avversi alle comuni aspettative sulla musica black. Techno e jungle sono generi rivoluzionari, in quanto ci consentono di immaginare il futuro tramite la musica.
In ultimo luogo, The Last Angel of History propone una riflessione sull’eredità della black culture nel tempo e sul ruolo del sampling. Il sampling riesce, secondo Greg Tate, a generare una digitized (race) memory; a tramandare generazionalmente musica di tutte le epoche attraverso un fenomeno di compressione temporale.
“Sampling means to be able to reference and cross reference all those areas of sound and generations of creators”.
Il Data Thief ha la sua risposta. Il futuro è ormai presente, i confini tra Sci-fi e realtà sociale sono sfumati. Sta agli individui riuscire a rilasciare il potenziale che la tecnologia offre. In un mondo in cui la tecnologia ha reso il tempo pressoché irrilevante, non si può che guardare avanti. Il futuro è in mano a coloro che saranno in grado di interfacciarsi con la diade uomo-macchina ed esplorare le mutazioni e le possibilità della tecnologia. The Last Angel of History è un documentario unico nel suo genere, un cult carico di significato e speranza per il futuro. La narrazione di Edward George e la regia di John Akomfrah si completano a vicenda, riuscendo a unire una sceneggiatura densa e a tratti enigmatica a un’atmosfera perfettamente in linea con l’iconografia Afrofuturista.