Woman di Rhye è un album che cinque anni fa ci rivoltò tutti come calzini.
Un disco di funk raffinatissimo capace di far cedere le ginocchia anche all’amico più reticente, un gioiello di soul elettronico sorretto da una voce carezzevole e suadente, richiamo sensuale di movimenti pelvici e occhi chiusi.
Woman non è stato solo il nostro piccolo smoothie preferito, quello con le noccioline caramellate che tanto amiamo: per tutto il 2013 ha ricevuto consensi unanimi e, a fine anno, è comparso ovunque nelle classifiche dei best album of the year.
Ora quell’album ha un seguito.
Si chiama Blood. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Mike Milosh, one man band dietro il progetto Rhye, in vista della pubblicazione del nuovo lavoro (prevista per il 2 febbraio).
Ecco come è andata.
Blood suona in maniera molto più fisica rispetto al primo album Woman. Ho letto che hai voluto suonare tutto dal vivo: hai scelto questo approccio per registrare prima o dopo aver composto i pezzi?
I testi e l’atmosfera delle canzoni ti hanno spinto verso una relazione più intima con la musica e gli strumenti?
Penso di aver sempre voluto che questo disco risultasse più terreno. È stata una decisione sorta sin dall’inizio quando mi sono trovato a suonare con una batteria Ludwig del ’65: è stata lei a dare forma alla sensibilità dell’album. Se ripenso al primo disco a nome Rhye, trovo che avesse un suono molto ripulito; con questo album volevo esplorare il lato più emozionale degli strumenti dal vivo.
Blood mi ha davvero permesso di farlo.
Uno degli aspetti che più mi intriga della tua musica è infatti il ritmo. Ci sono un sacco di handclapping sopraffini nelle canzoni nuove! Ti va di raccontarmi come li hai creati?
Dici bene, è qualcosa che volevo perfezionare in questo disco. Pensavo che l’elemento ritmico potesse essere ancor più messo a fuoco durante il processo di registrazione.
Per catturare tutti i battiti di mano ho usato un U67 Neumann stando molto vicino al microfono e battendo le mani in modo molto lieve. Volevo evitare qualsiasi ritorno del suono, quindi ho dovuto fare diverse prove per trovare il tono più caldo possibile.
Continuiamo a parlare di ritmo, ti va? Hai suonato tu la batteria in tutte le canzoni: questa scelta ha influenzato la parte vocale dei brani?
Certo! Come detto prima, quello specifico suono di batteria ha modellato tutto Blood e ha dato vita ad una pasta sonora molto consistente dalla quale ho creato le voci e le parole delle varie canzoni. Era fondamentale per me che questo disco avesse una fortissima impronta live.
Nella canzone Please c’è un momento magico proprio prima del verso don’t cry that way: è una pausa in cui il piano suona delle note super-gravi. È un passaggio cruciale carico di aspettative e di una buona dose di tensione narrativa.
Solo in un secondo momento ho scoperto che il piano era suonato da Thomas Bartlett (in arte Doveman, musicista e collaboratore, tra gli altri, di Sufjan Stevens, St. Vincent, National, ndr) che personalmente adoro. Trovo abbia un’incredibile sensibilità nello scivolare sotto la pelle di canzoni non sue.
Ti va di dirmi come è nato il brano?
Please nasce da una storia molto personale. L’ho scritta dopo una piccola lite con la mia ragazza Genevieve mentre eravamo su un volo per New York diretti proprio ad una sessione di prova con Thomas Bartlett. È una canzone di scuse. All’epoca mi ero comportato da vero cocciuto, soprattutto perché a volte mi viene difficile esprimere ciò che sento. Con Thomas è stato possibile lasciarmi andare, sentirmi vulnerabile. Sì, ha proprio una capacità innata di fermare l’attimo.
Blood suona come un misto di vulnerabilità e desiderio di proteggere ed essere protetti. Che poi forse l’unica maniera di sentirsi protetti è proprio mostrarsi vulnerabili e senza difese, e proteggere ciò che amiamo. Esporsi completamente all’amore e ricevere un po’ di protezione. Che paradosso pazzesco! Che ne dici?
Sì, è un controsenso potentissimo. Blood è un album che scandaglia a fondo questo senso di vulnerabilità nelle relazioni. Credo che in ogni rapporto sia necessario aprirsi completamente all’altro e esporsi da un punto di vista emotivo, un qualcosa che, secondo me, facciamo per tentare di proteggerci dal dolore. Tuttavia amare davvero qualcuno implica sentirsi vulnerabili e così facendo essere capaci di proteggersi a vicenda: è una parte essenziale in una relazione.
Sai, quando ho ascoltato per la prima volta la canzone Stay Safe ho subito capito che sarebbe diventata un instant classic per me. Mi è capitato di sentirla con la mia ragazza e abbiamo discusso sul significato del ritornello You wanna lay low, you wanna stay safe, let’s make a home. Io ci ho visto un velo di ironia, come una resa placida ma consapevole ad un certo tipo di vita sicura. Per lei è un messaggio che trasmette stabilità, calore e amore. Chi ha ragione? – sempre che ci sia solo un modo di interpretar le cose! :)
Penso che abbiate entrambe ragione. Stay Safe parla proprio del creare una casa con la mia ragazza e di quanto sia importante donare la propria vita all’altra persona per ricevere in cambio amore e un senso di equilibrio. E ancora, appunto, rendersi vulnerabili. Tutto torna.
Un’ultima domanda. Più di due anni fa sono stata a un concerto di Rhye a Parigi, che esperienza fantastica! Ho amato come hai deciso di trasformare e ampliare lo spazio delle tue canzoni, facendole diventare quasi brani di chamber music. Qualche anticipazione per il tour imminente di Blood?
Che bello sentire che è stata un’esperienza così segnante per te. Nei concerti per me è necessario che tutti gli strumenti e le canzoni prendano nuova forma sul palco e vivano di una vita propria fuori dalla registrazione. Tradurre tutto questo dal vivo e in chiave chamber pop è sicuramente qualcosa che spero di fare per quest’album.
Puoi ascoltare Blood di Rhye da venerdì 2 Febbraio. Nel frattempo inganna l’attesa con Count to Five.