Descrivere quello che ieri sera è stato il concerto di LIBERATO a Napoli non è cosa semplice.
Non c’è nulla di ovvio, di scontato in quelle diecimila e più persone che ieri hanno invaso l’intero lungomare per cantare (più che ascoltare) quei sei brani di un artista conosciutissimo e allo stesso modo sconosciuto.
Eravamo tutti lì, sotto ‘a luna, infriccicati da un inedito brivido di curiosità, dall’attitudine anche spocchiosa del “famme vedè che te fir ‘e cumbinà“, e finalmente consapevoli di esser stati sedotti dal fascino di una poesia semplice: sentire Napoli.
Ho quasi trent’anni, tantissimi concerti alle spalle e mi sento di poter dire che quello che ho visto ieri nella mia città non l’ho visto mai. Non parlo soltanto della portata dell’evento, o del fatto che qualcuno ha preso un treno da Milano o dalla Svizzera per venire a sentire un concerto a Napoli (quando è sempre vero il contrario).
Mi riferisco piuttosto al fatto che ieri surrealismo e iperrealismo erano allo stesso posto e nello stesso momento.
In quel pubblico c’era il lettore di DLSO, lo scettico organizzatore di eventi, il cuozzo, il posillipino, quello che ascolta la musica classica, la ballerina dell’Arenile, il musicista, Fru dei The Jackal, il rosicone, la coppia dei quartieri e probabilmente anche il malamente.
E di surreale c’è stato il fatto che non eravamo più così tanto diversi: nell’attesa, nell’aguzzare la vista verso il molo al primo “eccolo, è iss, sta arrivando”, in Life is Life, con quelle mani su che sembravano salutare il mare, senza connessione ma comunque tutti con gli smartphone a fermare un momento se non irripetibile, unico, da riguardare a casa, mandare all’amico che non c’era, rendere imperituro con Instagram.
C’è stata una comunione sensibile, palpabile, ma che in qualche modo è andata oltre la realtà: una spinta che ci ha portati tutti alla Rotonda Diaz in un lavorativo mercoledì sera con il rischio pioggia, per stare insieme sotto un palco in questa data simbolica che è diventata il 9 maggio, da un anno a questa parte.
Surreale come LIBERATO che arriva via mare come la migliore delle spose di quartiere.
Iperreale come un fenomeno che è sulla bocca di tutti e che sei costretto a guardare in un susseguirsi di schermi che separano te e l’artista sul palco.
Non faccio cosa impopolare se dico che non si era lì solo per la musica.
Si è tanto parlato di brandizzazione di Napoli, di operazione di marketing (sul palco non c’era sponsor alcuno), di musica svuotata di senso perché vuole solo monetizzare e di tutta una serie di complotti che vogliono detrarre significato, poesia e fascino a un fenomeno come LIBERATO.
Ieri sera ho trovato una risposta a tutte queste cose.
È vero: non eravamo lì solo per la musica. Parlare di musica nel progetto LIBERATO è riduttivo, oltre che miope e presuntuoso: sappiamo tutti che INTOSTREET non è il Kanon di Pachelbel, non vuole esserlo e, del resto, non lo è nemmeno tutta la trap che vi ascoltate.
Eppure la canticchiate tutti, inconsciamente o meno. E, cosa più importante, vi restituisce un’immagine di Napoli, vi avvicina a una lingua bellissima, vi sforzate a pronunciarne bene le parole, vi apre a certi luoghi che non sono solo i soliti luoghi comuni.
Mi piace pensare che ieri chi sia venuto da ogni altra parte d’Italia abbia visto Napoli come io ho il privilegio di guardarla tutti i giorni e si sia sentito inevitabilmente una sua parte.
E a chi non c’era:
LIBERATO è un riscatto, è uno scudetto, è un prodotto discografico, è una storia semplice, una base sempre giusta.
LIBERATO è la sua città, la mia. E da ieri anche un po’ la tua.