Daniele Celona è un ragazzo torinese con una passione per la musica. La passione è diventata lavoro, e lo ha portato prima (nel 2010) a produrre il secondo disco dei concittadini Nadàr Solo (Un piano per fuggire), poi (nel 2011) ad accompagnare in giro per l’Italia il cantante e bassista della band, Matteo De Simone, aiutandolo a musicare il reading del suo primo libro (Denti guasti – edizioni Hacca), affidato a Pierpaolo Capovilla (Il Teatro degli Orrori, One Dimensional Man). La scorsa primavera, invece, è arrivato Fiori e Demoni—uscito per Noeve Records e promosso anche dalla Ghost Records—che vi abbiamo fatto ascoltare in esclusiva e che potete acquistare qui. Ecco la nostra intervista.
1) Ciao Daniele, iniziamo da te. Sei torinese, ma hai un forte legame con la Sardegna (dove hai registrato parte del disco); hai studiato pianoforte classico e poi jazz. Quanto della tua storia personale c’è in Fiori e demoni?
I contenuti del disco sono meno autobiografici di quanto si possa pensare.
Fatta eccezione per ‘Lo Straniero’ che parla della mia infanzia in Sardegna, negli altri brani ho cercato, per quanto possibile, di mantenere una certa distanza tra il me autore e la voce narrante del testo. Interpreto, molto più di quanto facessi un tempo, quando mi esponevo totalmente e senza difese. Tracce come ‘L’ alabastro di Agnese’, ‘Acqua’ o ‘Cremisi’, potrebbero poi, essere considerate quasi dei piccoli cortometraggi. Mi limito a raccontare l’ incontro/scontro di storie e personaggi nell’ Italia di oggi, stando al sicuro, se così si può dire, dietro la macchina da presa. Dando per scontato l’ amore che nutro per queste dieci canzoni, forse la storia personale più rilevante è quella legata alla realizzazione stessa di ‘Fiori e Demoni’. La carenza di tempo e budget ha comportato sacrifici e forza di volontà notevoli. Per dirne una, ho editato parte del disco sul portatile, mentre facevo le notti a mia madre in ospedale. Anche durante il mix, dormivo quando capitava, lavorando di giorno e mixando di notte. Spero davvero di potermela passare un po’ meglio per i dischi a venire.
2) Quanto alle esperienze degli ultimissimi anni, dopo la produzione dell’ultimo disco dei tuoi amici e concittadini Nadàr Solo (che hanno suonato anche nel tuo disco) nel 2010, lo scorso anno hai portato in giro per l’Italia il reading di Denti guasti, libro del cantante e bassista della band Matteo De Simone, con lo stesso Matteo e la partecipazione di Pierpaolo Capovilla. Su DLSO abbiamo spesso parlato di Torino: tu hai percepito l’esistenza di una “scena”? Ti sei sentito parte di qualcosa che andava oltre la tua musica e il tuo lavoro?
Ho sposato la causa Nadàr da produttore vecchio stampo, vivendo, suonando, bevendo con la band. Siamo diventati amici ancor prima di diventare gruppo di lavoro per ‘Un piano per fuggire‘ (il loro ultimo album) e infine band a tutti gli effetti per ‘Fiori e Demoni’.
Anche l’ aver realizzato un reading così inusuale, come quello di ‘Denti Guasti’ è una scommessa vinta. Il tour con Capovilla resta un epilogo esaltante delle date iniziate in duo, in concomitanza col Salone Del Libro dello scorso anno. Non sono tipo da facili entusiasmi, non do fiducia o amicizia con leggerezza, ma Pierpaolo mi ha letteralmente conquistato. Si è buttato su ‘Denti Guasti’, artisticamente e umanamente, con una forza tale da commuovere sia me che Matteo. Per quel che riguarda Torino, credo non si possa non avvertire il fermento che la pervade ormai da anni. La “scena” non è solo musicale. Nello stesso locale, a un aperitivo, ti può capitare di incrociare registi, fotografi, disegnatori, attori, dj e strumentisti di sorta. Ognuno “si fa il mazzo” nel proprio ambito e alcune realtà finiscono poi per collaborare e sostenersi. Banalmente, laddove non girano soldoni, neanche per nomi più affermati, si continuano a realizzare progetti per passione, si respirano ancora spontaneità ed entusiasmo, due ingredienti contagiosi.
Il passaggio “chimico” ulteriore sarà quello di vedere questi aggregati di talento, non respingersi o cannibalizzarsi l’ un l’ altro, ma dar corpo a un organismo più grande, prendere maggiore coscienza di sé come scenario artistico interdisciplinare.
3) Dal punto di vista musicale, il tuo potrebbe essere chiamato cantautorato rock. Ad oggi secondo te il fatto di andare oltre lo schema classico chitarra-voce è una scelta che paga? Nel senso, mi chiedevo se non fosse più difficile far arrivare un disco “d’autore”, nel momento in cui i testi e le melodie non sono più l’unica fonte di interesse…
Hai ragione, è un dubbio più che fondato. Nei live in acustico (da solo o in duo) avverto chiaramente come alcuni brani “arrivino” più facilmente. La formula , con voce e parole sbattute in primo piano, è forse il letto migliore per un certo tipo di emotività, per la comprensione e l’ empatia con un testo. Il fatto, molto semplice, è che questa dimensione non mi basta. Sarà puerile, ma ho anche l’ esigenza, fisica, di scaricare potenza dagli ampli e innescare il fuzz in qualche ritornello. Quando inizio a produrre dei provini, mantengo come linea guida il suono da band. Una volta tagliati pattern di batteria e linea di basso, capita che torni indietro, riarrangiando il brano per una esecuzione, alternativa, in acustico. Non mi faccio mancare niente. Da ingordo, da ascoltatore e musicista poligamo, scrivo, canto e arrangio nel modo o nei modi che mi fanno stare bene. È un’ equazione primitiva, che nulla ha a che fare coi calcoli sull’ attaccabilità o meno dei brani, su cosa paghi o meno nel trovare il favore di pubblico e critica. Il seguito di Fiori e Demoni, si baserà molto di più sul lavoro in sala coi Nadàr e meno su quello al computer.
È verosimile che l’ aspetto rock assuma ancora maggior rilevanza, ma conto di poter continuare a definirmi cantautore senza particolari problemi.
4) A proposito di musica d’autore: nel disco ci sono diverse canzoni in cui ti occupi di tematiche sociali e politiche, vere e proprie invettive contro le brutture di questo Paese. Il nostro bisogno di classificare tutto e ricondurre qualsiasi produzione artistica ad una categoria, come se avessimo paura di sforzarci per capirne la profondità, fa spesso derivare le canzoni di denuncia da una presunta rabbia personale di chi le scrive. Tu invece hai spesso parlato di “misura colma” e di operazione di resistenza culturale. Come si fa a rispondere a questa semplificazione e banalizzazione dei concetti e delle storie? L’artista ha ancora una funzione sociale secondo te?
L’ esigenza di inscatolare ed etichettare temo sia insanabile, intimamente legata alla necessità di affermarsi identificando l’altro, il nuovo, nel minore tempo possibile, a costo di essere superficiali e quindi, in molti casi, sbagliare. Nel caso in esame però, non trovo svilente ammettere che l’ istanza da cui partono tutti i miei pezzi, compresi quelli che trattano di politica e integrazione sociale, è egoisticamente e strettamente personale, autoterapia a tutti gli effetti, senza una consapevole ricerca di condivisione o tantomeno un intento predicatorio. Dar fiato alla bocca, anche demagogicamente, esprimere o mettere nero su bianco la propria indignazione è il primo passo, istintivo, per emanciparsi dall’ inerzia, per sentirsi meno impotenti, stupidi, soggiogati. A freddo, a posteriori, può capitare che le tue parole entrino in risonanza con la visione altrui e in quel momento un brano smetta di essere solo un tuo sfogo, ma diventi potenziale stimolo di confronto, di discussione, di resistenza e reazione. Un eco non basta. Un coro, unisono, è in grado di far tremare il suolo. Se un artista può fare da catalizzatore per l’ incontro di più voci, allora sì, è ancora plausibile che un suo ruolo sociale sia possibile e legittimo.
5) Ultimissima curiosità: le tue prime canzoni erano scritte in inglese. Anche la scelta dell’italiano è riconducibile alla resistenza culturale di cui sopra?
In realtà, ho iniziato a scrivere una parte dei brani in inglese solo dal 2008. Sia io che Federico (Nadàr) abbiamo materiale in questa lingua per almeno un paio di dischi. Prima o poi dovremmo trovare il tempo per curare testi e pronuncia e realizzare qualcosa che non siano semplicemente dei provini grezzi. Persino “Distance” , di cui ho realizzato un video finito nei 30 del PVI, è una registrazione casalinga con batteria montata al computer.
Al momento, una manciata di brani in inglese trova spazio nei live e ci aiuta, insieme alle improvvisazioni, a tener in piedi la “scaletta lunga”. Comporre ‘Fiori e Demoni’ con soli brani in italiano è stata certamente una scelta precisa, ma non derivante dalla necessità assoluta di usare la madrelingua per parlare dei problemi (a)tipici del pianeta Italia. A esser sinceri, non immaginavo neanche che la vena di matrice socio-politica non si esaurisse dopo uno, due brani. Quello che vedo e sento giornalmente, per strada o in televisione, continua a tornarmi su come un boccone indigesto e già due dei brani che confluiranno nel prossimo disco hanno i titoli emblematici di ‘Precario’ e ‘Politico’, protagonisti nemesi uno dell’ altro, poli opposti nel momento storico che stiamo vivendo. Non so se si tratti di resistenza culturale, ma il non rimanere in silenzio credo sia il ruolo minimo che ci competa. Per verbo non si intenda solo e semplicemente la parola, ma qualsiasi forma d’ espressione, fosse anche una foto o una scultura, in grado di scuotere l’ ascoltatore o l’ osservatore, in grado di tradurre la realtà mediaticamente distorta ed esporla senza filtri.