Credo sia sempre difficile scrivere di quello che ti piace, ancora più difficile poi è scrivere di quello che ti piace quando abitualmente non scrivi. E in effetti, pensandoci bene, è davvero molto tempo che non scrivo. Non sono più abituato a sedermi e buttar giù parole, pensieri e robe mie personali. O forse non mi piace più, non lo so. Poi scrivere di Giovanni è molto spesso scrivere di robe mie personali, di quello che mi piace. Il suo modo di costruire e raccontare le storie, di pensare musica e di farti toccare le cose come vuole fartele toccare lui. È una cosa rara in musica, meno rara in letteratura.
E mentre ci innamoriamo, tieniti forte, tieniti bene, mentre mi vieni vicino,
sull’orlo di questo burrone.
Queste sono le cose che ti fa toccare Giovanni.
Ma lasciamo per un momento i burroni (ci torneremo) e veniamo a noi, cioè a Giovanni Truppi, dicevamo, il suo ultimo disco è uscito venerdì, si chiama Poesia & Civiltà, ed è il primo realizzato con una major, la Virgin Records (Universal Music Italia).
Vado dritto al punto: anche questo è un gran bel disco. Mi erano piaciuti anche gli altri. Prima di ascoltarlo vi confesso che avevo un leggero timore che potesse essere qualcosa di diverso, nel senso di troppo altro dalle cose che mi legano alla sua musica, e invece no, cioè in parte sì ma non sono così lontane (poi lo capirete meglio). Sono 11 brani sospesi fra prosa e poesia, alcuni, come “Quando ridi”, “L’Unica oltre l’amore” capaci di toccare corde profonde, profondissime, e veicolare emozioni sincere, genuine, essenziali. Altri come “I miei primi sei mesi da rockstar”, “Borghesia” o “L’elezioni politiche del 2018” spalancano le porte alla fragilità di questa contemporaneità così incasinata. Ti aiutano a decifrarla, non a comprenderla.
La recensione potrebbe finire qui. Invece per consegnarvi un pezzo che abbia una sua dignità sono andato direttamente a casa sua, e con la scusa di un piatto di pasta e di una buona bottiglia di vino (in realtà due), abbiamo parlato del disco e di altre cose della vita.
Giovanni, spiegami subito la scelta di un titolo così, Poesia & Civiltà, perché? Che vuol dire?
La poesia e la civiltà sono i punti cardinali verso i quali tendono tutti gli elementi di questo disco, e io mi sono messo al servizio di questi due principi ispiratori, ho sentito l’esigenza di abbandonare il linguaggio dei miei lavori precedenti e di costruirne uno nuovo, che rimandasse a una scrittura più classica e meno anarchica e spigolosa.
È il tuo primo disco con una major. Raccontami come è stato rapportarti con loro.
Mi hanno lasciato completamente carta bianca. Sono abbastanza aperti, perché fuori dal loro recinto sono successe delle robe enormi.
Parli di Spotify e Youtube?
Eh sì. Pensa, infatti, che sono stato più io a sentirli per aggiornarli sui progressi del disco, ma avrei potuto pure non farlo.
Quindi, per assurdo, è stato più facile.
Per ora, forse, la situazione migliore in cui mi son trovato.
Uno dei brani che più mi ha incuriosito è stato “Borghesia”. Ci ho trovato dentro una visione del mondo abbastanza netta.
C’è un libro che mi ha spinto a scrivere questa canzone, ed è “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati. È un libro che parla dell’essere maschio, dell’essere borghese.
Se mi dici borghesia io però penso, per formazione culturale e sociale, al monopolio dei mezzi di produzione, alla lotta di classe.
È vero, però non dimenticarti che la borghesia ha messo in moto meccanismi anche di cambiamento. A un certo punto del ‘900, c’è stato un attimo in cui c’era una cosa in potenza enorme, invece poi il processo ha preso un’altra piega.
Io però il libro di Albinati non l’ho letto, non mi ispirava. Anche se credo sia cruciale non sottrarsi al dibattito sul declino e la trasformazione della borghesia italiana negli ultimi 30-40 anni per capire meglio molte cose dei giorni nostri.
“Borghesia” è un brano che avrei scritto anche senza aver letto quel libro, eh. Sul tema poi ci sarebbe da leggere anche ”The Bourgeois” di Franco Moretti (fratello di Nanni), lui insegna letteratura italiana alla Stanford University.
A proposito di Nanni, e tu sai bene della mia fissazione, ho appena letto “Tre piani”, il libro da cui l’ultimo film che sta girando.
Ti è piaciuto?
Sì. Probabilmente mi piacerà anche il film. Ma di Nanni abbiamo già parlato tante altre volte, quindi tornando al disco, ho individuato 3 filoni: uno politico, uno poetico, e poi ci vedo sempre quel pezzettino di metafisico. La canzone “Adamo” per esempio mi pare di capire sia la seconda parte del racconto iniziato con “Eva”, presente nel penultimo disco.
Quello che ho provato a fare è stato metaforizzare la cacciata dal paradiso. La fine del paradiso terrestre, per Eva è la fine di una storia d’amore, per Adamo è la fine del periodo in cui sta nel Paradiso e quindi a contatto con Dio. Poi è una cosa che puoi leggere in tanti modi, per me Adamo rappresenta l’umanità o l’uomo archetipico, quindi il Paradiso può essere semplicemente l’infanzia, ragionando sulla crescita e sul diventare grande.
È una cosa che hai fatto anche con “Tutto l’Universo”.
Sì, è vero.
Poi io vorrei parlare di quel maledetto, in senso buono, pezzo toccante che è “Conoscersi in un momento di difficoltà”. Di tutti quelli che hai scritto, è forse quello che mi ha straziato di più. La solitudine, la difficoltà, i fuochi spenti, liberare i prigionieri, il burrone. Mortaccitua Giovanni.
(Ride) Ci ho messo molto tempo a scriverlo.
“Mia”, invece, mi ha ricordato delle robe di Vasco, mentre “Adamo” qualcosina di Battiato.
Davvero? Non ci ho fatto caso. Però devo dire che ormai dopo un po’ di dischi che ho fatto è una cosa a cui non faccio più caso. Quel pezzo mi ricorda quell’autore, quell’altro quell’altro autore, ecc.
Poi solo tu potevi mettere in musica un un testo di antropologia del 1877: “Ancient Society”.
Mi ero letto “L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato” di Engels. E alla fine del libro, Engels cita per intero una pagina di Lewis H. Morgan, un antropologo americano.
Oh, praticamente hai buttato giù un disco-manifesto marxista. La sinistra riparta da Poesia & Civiltà. Chissà cosa diranno i tuoi vecchi fan.
Sai, è vero, sono molto curioso di capire come i vecchi fan prenderanno questo disco.
Quello che penso io è che sì, sei un po’ cambiato, inevitabilmente sei cresciuto artisticamente, sei maturato. Ma anche questo rimane un tuo disco, riconoscibile nei tratti e nelle tante sfumature. La tua impronta si sente. Forse un po’ diverso dai tuoi vecchi lavori.
Sì abbastanza, perché è meno variegato, ci sono meno elementi, meno colori. In questo disco cerco di mantenere il discorso dentro quei colori. Ho voluto indirizzare la produzione in un senso, mettere a fuoco alcuni aspetti.
Come ti dicevo prima, mi ha fatto ricordare molte cose di Franco Battiato. Forse non solo con la canzone “Adamo”.
Mi è venuto naturale fare riferimento ai dischi ed agli arrangiamenti della canzone d’autore degli anni ’70 e di cercare un punto di unione tra quel mondo e le suggestioni più forti che ho avuto negli ultimi anni.
Quindi anche roba straniera?
Negli ultimi periodi ho ascoltato moltissimo Sun Kil Moon, Sufjan Stevens e Father John Misty.
Poi il disco l’hai anche registrato negli Stati Uniti
Ho avuto la grande opportunità di confrontarmi con professionisti provenienti da un contesto musicale diverso dal mio, come Marco Buccelli, produttore di Xenia Rubinos oltre che mio collaboratore storico, o Rob Moose, che ha scritto per artisti come Alabama Shakes, Bon Iver, Sufjan Stevens e Paul Simon.
Quando sento Bon Iver mi viene sempre voglia di bere. E qui vedo che abbiamo quasi finito la seconda bottiglia di vino, per ritornare ai burroni. Io ti vorrei fare altre 200 domande ma forse basta così, facciamo che noi ci finiamo questa seconda bottiglia di vino e invitiamo tutti ad ascoltare il tuo album.
Va bene. Però dopo ti vorrei offrire anche un po’ di nocino.
Ok, un bicchiere però. Anzi, facciamo due. Evviva i burroni.