–di Andrea Populous Mangia
Era dai tempi dei Radiohead “buoni” che non prendevo una cotta simile per una band. Quando uscì “Yellow house” m’incuriosirono non poco, con quello strano mix di folk ed avanguardia, ma fu con “Veckatimest”—un autentico masterpiece di pop contemporaneo—che persi completamente la testa. Un disco che si era rivelato poco a poco, sempre di più.
Tre anni son passati e tante cose son successe ai quattro newyorkesi: matrimoni gay, famiglie, progetti solisti (Daniel Rossen su tutti), collaborazioni (Ed Droste che duetta con Pecknold, leader dei Fleet Foxes). Francamente non sapevo cosa aspettarmi, la delusione era dietro l’angolo e “Sleeping ute”, il primo estratto da “Shields“, non aveva calmato i miei timori: troppo rock e fracassoso per i miei gusti. Ma la magia è successa ancora una volta. Pare proprio che i Grizzly Bear abbiano ritrovato armonia e ispirazione a Cape Cod, nella tanto cara Yellow House (la casa della madre di Droste), ed è lì che è successa una cosa inedita: la composizione dei pezzi non più come opera individuale bensì collettiva, a 8 mani. È per questo che “Shields” è il lavoro più coeso, maturo ed equilibrato della band. Non ammiccante come “Vecketimest” né sperimentale come “Horn of plenty”. I pezzi sono delle mini-suite dove le code sono spesso scrigno di aperture melodiche epiche. Le voci di Droste e Rossen diventano quasi unica cosa, toccando vertici di lirismo assoluti in “Half gate”, qualcosa a metà tra musica da camera e il Mark Hollis solista. “Shields” ha il pregio di essere un disco molto più diretto dei suoi predecessori e il modo in cui è stato registrato ne è la conferma: prese dirette da buona la prima, imperfezioni d’esecuzione non corrette in Pro-tools, suoni crudi; a detta di Droste “è un album meno leccato dove ogni cosa parla per se”. Gli echi noir-jazz di “What’s wrong”, il classic rock di “A simple answer”, il funk bianco di “Gun shy” e, sopra ogni cosa, i 7 minuti di quel capolavoro che è “Sun in your eyes”: piccola grande gemma di folk rock sinfonico, sospesa tra vuoti pianistici alla Satie e cavalcate quasi noise. Concludo dicendo che continuo a non capire come mai in italia i Grizzly Bear non abbiano il seguito che meriterebbero. Non è infatti prevista nessuna tappa italiana per il tour europeo. Il dibattito è aperto. La logica chiusa.