Il 2 giugno il mondo della musica si è fermato in segno di protesta contro il razzismo.
Sotto lo slogan #TheShowMustBePaused, l’industria musicale ha messo in pausa le sue attività per riflettere sugli ultimi eventi che hanno scosso gli Stati Uniti e solidarizzare con la comunità nera che continua a lottare contro ogni forma di discriminazione, razzismo e ingiustizia sociale.
L’iniziativa in supporto al Black Lives Matter abbracciata anche dal settore musica è stata un’occasione per rimarcare quanto quello stesso settore sia in debito nei confronti della black community. Per farla breve e chiara, molti generi musicali non esisterebbero senza l’enorme contributo dei neri.
Ciononostante, l’industria musicale continua ad essere per gran parte appannaggio esclusivo dei bianchi. Non solo: quando ci si è trovati a dover conferire agli artisti neri un qualche riconoscimento in ambito musicale, è scattata anche lì una forma di discriminazione razziale.
Ricordate la polemica di Tyler, The Creator ai Grammy 2019?
L’artista è stato insignito in quell’occasione del premio Miglior Album Rap del 2019 per il disco IGOR e nel suo discorso ha acceso una lucida polemica nei confronti della categoria urban usata nell’ambito delle competizioni musicali per limitare in qualche modo il campo di gioco della comunità nera.
Nello specifico, “urban” viene percepito come un termine-ombrello e politicamente corretto per dire la “n-word” e molte volte, anche se un progetto non è propriamente rap o urban (come quello di Tyler) viene lo stesso ricondotto a tale categoria solo per il colore della pelle dell’artista che c’è dietro, escludendo allo stesso la possibilità di essere inserito in altro genere come il pop, ad esempio.
Negli ultimi giorni la Republic Records ha deciso di bannare l’utilizzo del termine “urban” per catalogare i suoi artisti e generi e allo stesso modo il Grammy ha cancellato la sezione Urban, sostituendola con la categoria Best Progressive R&B.
Sono dei piccoli segnali di una presa di coscienza da parte del mondo dell’industria musicale ma la strada verso l’inclusione e il pieno riconoscimento del valore della black community nel settore musica è ancora molto lunga.
Un’altra cosa da fare potrebbe essere quella di smetterla di ignorare che una sfilza di generi musicali (e non solo l’RnB, il reggae e l’hip-hop) sono stati creati da artisti neri.
Ad esempio, al contrario di quanto ci ha fatto credere la narrazione più popolare, la musica country non è di dominio dei bianchi ma ha radici nel clima razziale del Sud America all’inizio del ventesimo secolo.
In pratica il mito del country come “genere da bianchi” è stato costruito sull’esclusione dei musicisti neri, appropriandosi delle loro canzoni e degli strumenti a corda come il banjo, portato in America dagli schiavi africani.
Il contributo della comunità di artisti neri è stato fondamentale anche per un altro genere che spesso identifichiamo con artisti bianchi ed è il rock ‘n’roll: a costruirlo nel modo in cui lo conosciamo adesso con quel suo caratteristico suono incalzante è stata Sister Rosetta Tharpe, cantante e chitarrista statunitense, nonché pioniera della musica gospel. Fu lei negli anni 30 a suonare la chitarra nel modo che poi è diventato proprio del genere.
E l’house? Vi ricorderete che il dj afroamericano Frankie Knuckles è stato accreditato come uno dei fondatori del genere. Le sue sperimentazioni sul finire degli anni ’70 sono state un importante punto di riferimento nella cultura club underground di Chicago e per la comunità gay latina che frequentava quella scena.
Poi, come fa notare Highsnobiety: “Years later, the David Guettas of pop culture have usurped the queer black narrative of house. But, remember, Knuckles’ brand of dance music was born to be played for the gay people of color on Chicago’s South Side – not bottle service in Ibiza.”
Insomma questa fondamentale lezione di storia che continui a leggere qui ti insegna che è arrivato il momento di riconoscere l’impatto che la comunità nera ha avuto sulla musica che ascoltiamo oggi.