Sufjan Stevens ha cantato di oroscopi cinesi, miti greci e parabole religiose e cronaca locale. Col suo ottavo album, The Ascension, Stevens si lascia alle spalle buona parte del suo passato.
Ed eccoci a noi, Sufjan.
Un album di Sufjan Stevens non passa mai inosservato. Beh, penso: così come è impossibile passi inosservato il modo in cui Sufjan ha deciso di accompagnare ogni capitolo della sua carriera. Il cappello da cowboy dell’epoca di Michigan, Seven Swans e Illinois, perle di chamber-pop e folk del biennio 2003-2005 che l’hanno assurto a nuovo cantore dell’immaginario americana (con tanto di trovata pubblicitaria di “un album per stato”, ovviamente mai realizzata). Poi c’è il berretto natalizio delle raccolte Songs for Christmas (2006) e Silver & Gold (2012). Dieci anni fa è la volta dei costumi neon, fluo e fumettosi del trittico BQE, All Delighted People e The Age of Adz (2009-2010), lavori in cui il registro barocco e orchestrale si sposta con moto ondoso verso suite schizo-elettroniche create, a dire di Sufjan, per muovere il sedere durante l’apocalisse.
Cinque anni più tardi vediamo Sufjan con cappellino e t-shirt, l’atmosfera dimessa, la scenografia a cattedrale, mentre propone quel capolavoro intimo e folk che è Carrie & Lowell (2015), dedicato alla madre Carrie, scomparsa tre anni prima. Infine c’è l’esibizione agli Oscar 2018, Sufjan con la giacca di Gucci in stile barbershop che canta Mystery of Love, nominata come miglior canzone originale e contenuta nel film Chiamami col tuo nome.
In mezzo a tutto questo: colonne sonore per balletti e documentari, lavori ambient col patrigno Lowell, brani su costellazioni, folklore americano, miti greci, pattinatrici e balene pronte a esplodere.
Appunto, esplodere. In quasi 20 anni di discografia ufficiale e progetti paralleli, Sufjan Stevens non ha fatto altro che posticipare un momento preciso: quello in cui il castello di riferimenti e narrazioni crolla e la bolla di sottotesti scoppia. Nonostante un tutto performativo, Sufjan Stevens non ha fatto altro che nascondersi sotto coltri di colori, abiti, pretesti e contesti narrativi. La sua poetica si è sempre basata su un carrozzone spettacolare, una formula perfetta, un teorema irriducibile di qualcos’altro, un altrove elusivo.
The Ascension è quel momento preciso. Considerato un “break-up” album, racconta la fine di un rapporto, sì, ma con se stessi: una separazione o, come Sufjan cantava in Chicago, “For freedom from myself and from the land”.
Ed eccoci a noi, Sufjan.
Prepararsi all’ascesa. Gli estratti di The Ascension
The Ascension viene annunciato il 30 giugno 2020. Per avvicinarci alla pubblicazione del disco, prevista per il 25 settembre, Sufjan Stevens sceglie una manciata di singoli che preannunciano una piccola rivoluzione.
America
Si parte dalla fine dell’album, ovvero con America, ultimo brano nella tracklist di The Ascension e rilasciato simbolicamente il 4 di luglio, giorno dell’indipendenza degli Stati Uniti. America è il manifesto lirico di un Sufjan Stevens disilluso e amaro che arriva perfino a cantare versi come “I am ashamed to admit I no longer believe […] I have traded my life for a picture of the scenery”. Questa canzone riesce in “soli” 12 minuti a spazzare via tutto quella religione laica e quel culto per gli Stati Uniti che Sufjan aveva professato in tutta la sua discografia. È il suono di un sogno che si infrange. Sufjan sembra quasi dire: “Ti ho dato tutta la mia vita e tu in cambio guarda che mi fai. Sei una terra piena di odio, ignoranza, sprezzante, dispotica, sorda, paranoica, violenta. Come posso ancora cantare la tua innocenza? Come posso continuare a essere il tuo menestrello?”. Il paesaggio sonoro è lento, malinconico, rassegnato (vicino a Visions of Gideon) e si apre a un lungo epilogo strumentale di rumori, echi e fantasmi.
My Rajneesh
Una riflessione merita la b-side del singolo America, il brano My Rajneesh che di The Ascension è il grande escluso. My Rajneesh è un altro modo per Sufjan di scrollarsi di dosso un certo modo di scrivere musica, un qualcosa che forse deve a sé stesso. Qual è l’opposto di un rito iniziatico? My Rajneesh è tutto questo: la chiusura di un cerchio. E di un’epopea, quella del “ciclo Oregon”, stato scenografia dell’album Carrie & Lowell.
Sufjan tira fuori la chitarra acustica un’ultima volta per raccontare una storia che richiama il culto religioso new age Subud a cui i genitori di Sufjan avevano aderito ma soprattutto la vicenda del Rajneeshpuram, comune post-hippie voluta dal guru Osho e sorta negli anni ’80 in Oregon. Comune dove, leggenda vuole, sembrerebbe essere transitata anche Carrie, la madre di Sufjan (la notizia non è mai stata confermata ma alcuni frame di Wild Wild Country, famoso documentario Netflix sulla comune, mostrano una donna incredibilmente simile a Carrie e con la stessa montatura di occhiali, di porpora vestita). Il brano è talmente imbevuto della stessa poetica orchestrale dell’album The Age of Adz da presentare un sample del brano Vesuvius.
Video Game e Sugar
Il singolo successivo Video Game riprende il messaggio di My Rajneesh ma ribalta completamente il paesaggio sonoro: è un brano synth-pop dallo sviluppo orizzontale e dal piglio decisamente accessibile, orecchiabile e ballabile. Con un incidere pieno di negazioni, fa a pezzi ogni cornice, ogni trucchetto, ogni livello (di gioco e di narrazione) di cui Sufjan ha sempre abusato. I don’t wanna be your personal Jesus, dice secco Sufjan nel primo verso, seguito da I don’t wanna be the center of the universe, I don’t wanna play your video game. Insomma, un invito preciso a smettere di idolatrare le persone, a considerarlo un profeta e ad alimentare un culto intorno a lui. Nelle due uniche affermazioni di Video Game Sufjan infatti dice che “I wanna be my own redeemer”, quasi a troncare una relazione abusiva con se stesso, a volersi salvare senza aggrapparsi ad altro, e che “I just wanna make my life a little easier”.
Quella semplicità tanto agognata da Sufjan aleggia nel terzo estratto da The Ascension. Sugar è un inno alla normalità, alla purezza, alla franchezza e alla sostanza (a me piace chiamarla “pasta”) rispetto alla forma, all’esercizio di stile e all’artificio. Sugar è anche un manifesto: Sufjan ha una gran voglia di parlare in modo diretto, senza girare intorno alle cose. Succhiare tutto il midollo della vita – o almeno la dolcezza di essa, godersi il buono e abbandonare le vecchie abitudini e l’ossessione morbosa per il passato. In un’intervista a The Atlantic Sufjan dice questa cosa: “No, I don’t want to write another song about my dead mother” che è un po’ una parafrasi di un verso in Sugar, ovvero “don’t make sing sad songs”. Sugar è il modo migliore per addentrarci in The Ascension.
The Ascension, una nuova vita fuori di sé
“Ascesa” o “ascensione” è un termine religioso che indica l’ultimo episodio della vita terrena di Gesù, l’elevazione a un luogo superiore e la preparazione a una nuova vita nei cieli. Nell’ambito new age, l’ascesa è sinonimo di evoluzione e crescita spirituale dopo una fase preparatoria.
The Ascension è il disco in cui Sufjan Stevens si eleva dal suo passato e va verso una nuova vita. L’uomo Sufjan Stevens trascende, mentre il mito cade. E con sé il costrutto, quel tappeto di storie e vite altrui in cui incrociare e tessere frammenti del proprio vissuto (e viceversa). Crollano le leggende, gli alibi, le narrazioni da controllare. Forse un indizio ce l’aveva dato un verso della traccia finale di Carrie & Lowell, la splendida Blue Bucket of Gold, che recita: “Once the myth has been told/the lens deforms it as lightning”.
Che senso ha continuare a credere, se quello in cui si crede si rivela un mito, quindi modificabile, manipolabile, interpretabile come viene più comodo? In Carrie & Lowell questa domanda riverbera entro le pareti del corpo e del cuore di Sufjan e fa prendere poco a poco le distanze dall’intreccio di storie che abitano la sua scrittura.
In The Ascension il distacco stilistico è netto, quasi da cordone ombelicale reciso. Nell’intervista del 2015 a Pitchfork diceva di Carrie & Lowell: “this is not an artifact, it’s about me”; nell’intervista del settembre 2020 a Exclaim dichiara di The Ascension: “It’s really not about me. I am just the messenger”.
E forse perché non si toccano questioni strettamente personali (appunto, “it’s not about me”), Sufjan Stevens per The Ascension ha rilasciato un numero notevole di interviste – mai così tante! – in concomitanza del lancio del disco. Ha raccontato della sua nuova vita sui monti Catskills dopo 20 anni caotici a New York e di come il disco sia il risultato di una situazione di scarsità (pochi strumenti portati con sé tra il tour di Carrie & Lowell e il trasloco) e di urgenza.
The Ascension, un monolite glitch-pop e synthwave
Prima c’è la scarsità. Da un punto di vista musicale, in effetti, The Ascension appare monolitico, spaventosamente compatto. Un macigno di un’ora e venti, 15 canzoni con una durata media di 5 minuti, tutte contrassegnate da un arrangiamento omogeneo electro-pop. Se la palette sonora è decisamente minimal (computer, drum machine e sintetizzatori analogici), l’effetto prodotto è massimizzato da stratificazioni e loop, tenuti a bada o espansi mentre il respiro di ogni brano va via via restringendosi o allargandosi. Insomma, con Sufjan funziona così: il brano può esplodere improvvisamente in una tempesta di breakbeat (Lamentations o Ursa Major), un turbine di synth marziali e sinistri (Make Me an Offer I Cannot Refuse o Death Star) oppure fluttuare su morbidi bleep elettronici o swell ambient (Run Away with Me o Landslide) e ancora, proprio come ama dire lui, muovere il sedere (Goodbye to All That o Ativan).
Per quanto riguarda la composizione, siamo in pieno territorio sufjanesco con brani che poggiano interamente su ripetizioni cicliche e tappeti sonori, con la linea vocale che detta lo sviluppo del brano e a volte fa veri e propri miracoli di variazione (Gilgamesh, The Ascension). Nulla che non abbiamo già sentito nella sua discografia, soprattutto se siamo avvezzi a Planetarium, progetto dedicato allo spazio e pesantemente contrassegnato da sonorità cosmiche ed elettroniche. A differenza degli arrangiamenti passati, forse, oltre alla mancanza quasi totale di strumenti acustici, è la voglia di estremizzare una formula pop con piccoli inni e cori quasi da stadio: Die Happy aggiorna e rivede il mantra finale We’re all gonna die dell’iconica Fourth of July; tutta la costruzione del ritornello di Video Game è un altro esempio perfetto così come il Don’t do to me what you did to America in America.
Concludere un’epoca. E iniziare tutto daccapo
Poi c’è l’urgenza. Di seguito un piccolo aneddoto. Dopo l’omicidio di George Floyd e le manifestazioni del movimento Black Lives Matter, Sufjan Stevens posta su Instagram un passaggio della Genesi citato da The Fire Next Time di James Baldwin. Molti fan lo criticano per il riferimento criptico ed evocativo e per non aver affrontato di petto un problema enorme e pauroso come il razzismo sulla propria platform. Ecco: Sufjan in The Ascension cerca di fare esattamente questo.
“I realized that my problems were no longer personal…and I started to see my problems are universal”, dice a Exclaim. In The Ascension la necessità di distaccarsi dal mito (e di cercare, per quanto possibile, di togliere se stesso dal quadro generale) consente a Sufjan di mettere a fuoco questioni più ampie, importanti, urgenti: società, politica, identità, relazioni, malesseri, dipendenze. In questo senso The Ascension ha la stazza e la portata di un’antologia con un taglio editoriale – e per questo fa grande uso di liriche che possano risuonare, propagarsi e arrivare al pubblico più largo possibile. Nessun trucchetto, nessun linguaggio figurativo, nessun tentativo di mitizzare e interpretare, racconta a The Quietus (“I had to do away with all my previous tropes”). Il messaggio di The Ascension è chiaro, coerente e si diffonde attraverso formule prosaiche come luoghi comuni, slogan, cliché. Sono loro a essere portatori di verità, saggezza, di un significato materico, reale e universale. In una parola: pop.
The Ascension è a tratti un album epocale. Si stringe attorno alla sua epoca, la interroga, la perseguita, non le lascia scampo. Per Sufjan Stevens è la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, salutata con il brano omonimo, il bellissimo The Ascension. Una ballad lunghissima e sofferta, traboccante di parole, di cose da dire, tutte giuste. Oltre a essere una confessione, è la chiave di lettura di questo album. Alla fine il canto di Sufjan si moltiplica e si scioglie in un coro che dice: “What now?” (e adesso?).
E ora chissà cosa succederà.
The Ascension è fuori per Asthmatic Kitty.