Negli anni ’70, la pioniera dei sintetizzatori Suzanne Ciani diceva che la musica elettronica era una conversazione con la macchina, riflesso del nostro modo di comunicare. All’epoca, però, c’era ancora una certa distanza tra noi e quei dispositivi, così modulabili da sembrare vivi. Oggi la distanza è scomparsa, trasformando strumenti virtuali e intelligenze artificiali nella nuova normalità. Quelle macchine straordinarie hanno imparato a risponderci, e l’arte ha il compito di interpretare il nostro rapporto con un mondo in cui gli oggetti finiscono le nostre frasi.
Dal suo album di debutto nel 2011 – e ancora prima, nelle sue sperimentazioni techno e post-dubstep – James Blake si è dimostrato in grado di dialogare senza pregiudizi con le capacità dei computer. Invece di farsi sopraffare dall’inquietudine, questo introverso musicista londinese lasciava che la sua voce e le voci degli altri diventassero puri segnali elettromagnetici. Fuori dal suo controllo, le parole potevano rivelare nuove sfumature di senso e dilatare in modo imprevedibile i confini dei generi musicali.
Quando non canta, fa parlare melodie, ritmi e sample; se ha bisogno di purificarsi, sceglie espressioni semplici e pesanti e ce le presenta come confessioni su cui rimuginare durante un viaggio in solitudine. A volte si ripete: ascoltando a 9 anni di distanza I Never Learnt To Share, il testo apparentemente monotono continua a mutare. È una rappresentazione accurata delle relazioni tra le persone nella nostra era: sovraffollate di tracce digitali indelebili, le nostre interazioni hanno un peso difficile da decifrare, lasciandoci liberi di fraintendere. E la naturalezza con cui James Blake trasforma in suono le zone d’ombra dei nostri rapporti è proprio uno dei motivi per cui, nell’ultimo decennio, artisti di ogni scena e genere hanno sempre pensato a lui per rendere umane e sconvolgenti le loro canzoni.
Malinconia e romanticismo sono inscindibili dalla musica di James Blake, ma se questo legame è diventato sempre più evidente, lui non l’ha mai trasmesso in modo plateale o smielato.
Nel 2013, il suo album Overgrown trovava sollievo in accordi lunghi e profondi di synth e archi. Una pace puntualmente innervosita da batterie sperimentali, ispirate dal contatto tra Blake e le scene musicali più svariate: dai primi esperimenti su R&S Records al centro della scena post-dubstep alle produzioni elettroniche più graziose con i Mount Kimbie o dietro lo pseudonimo Harmonimix, fino alle collaborazioni hip-hop con Kendrick Lamar, Beyoncé e Travis Scott, non ha mai smesso di essere anche un producer nel vero senso del termine.
Nascoste tra le atmosfere criptiche costruite con cura maniacale, ci sono dichiarazioni d’amore alla musica stessa. Ma oltre alla sua sinergia con le macchine, attraversando il catalogo di James Blake troviamo un’incessante riflessione sull’orgoglio e la percezione di se stessi.
Tre anni dopo il secondo disco, l’album The Colour In Anything dipinge un un’umore più cupo dei precedenti. Queste canzoni raccontano la ricerca di una speranza che fatica ad arrivare, e in quasi 80 minuti di texture ricchissime, la nuvola nera rimane ferma, il sole sconfitto. Un sole che, nel triennio successivo, spunta contro ogni pronostico.
A inizio 2019 esce Assume Form, l’opera in cui James Blake decide di guardarsi allo specchio senza scuse. Nel corso del disco, molti versi iniziano con ‘I’, ma non si tratta di egocentrismo. Spesso, il pronome in prima persona è seguito da un ammissione di responsabilità: ‘I was wrong‘, ‘I will be touchable‘, ‘I try my hardest‘, ‘I’m finding I’m a smaller piece than I once thought‘. Qui il suo modo di esprimersi diventa più letterale che mai. Il suo stesso suo dialogo con gli strumenti elettronici serve a razionalizzare i pensieri della vita reale, e quando sentiamo la sua voce modificata in diversi toni e umori, anche il suo subconscio comunica in maniera netta.
Promesse, confessioni ed epifanie pronunciate a voce si alternano a rivelazioni puramente sonore. Le composizioni, sempre incredibilmente dettagliate, raggiungono i territori emotivi più sereni di tutta la carriera di Blake. La sua voce metallica e corale può apparire fredda, forse impostata. Ma in tutto questo tempo abbiamo imparato che la destinazione cercata da James Blake è sempre stata la quiete.
L’amore descritto da Assume Form si sublima in piccoli momenti quotidiani: un giro in macchina senza motivo, un inside joke, una serata a spettegolare sul nulla.
Le canzoni di James Blake ci dimostrano che l’amore può essere poetico persino in quest’epoca senza segreti. Se la comunicazione perde tutti i confini, significa anche che i nostri sentimenti non hanno più limiti.
Nel 2020, dopo aver pubblicato Before, un EP di musica strettamente ballabile, James Blake annuncia una raccolta di cover suonate al piano. Dalla reinterpretazione di Godspeed scritta insieme a Frank Ocean, al classico folk The First Time Ever I Saw Your Face, questa scelta riprende un’altra delle sue missioni, iniziata nel suo primo album: adattare vecchie concezioni di affetto e romanticismo al momento in cui viviamo, cercando di scovare messaggi nascosti.
Nel frattempo, continua ad indagare su come il suono possa trasmettere emozioni distinguibili anche senza l’aiuto delle parole. Sembra infatti che abbia portato a termine un progetto ambient: la sua personale interpretazione del nuovo linguaggio che Suzanne Ciani presagiva qualche decennio fa.
Quando James Blake, in diretta Instagram, si siede al piano e si scusa per non aver provato più attentamente i pezzi che sta per suonare, capiamo perché il suo prossimo passo sia proprio un omaggio alla musica degli altri: dopo tutte queste escursioni sonore, James Blake sogna di imparare ancora.