Vipra dopo i Sxrrxwland è un ragazzo Simpatico, solare, in cerca di amicizie.
Il titolo del suo primo disco solista fuori per Asian Fake è la bio del suo nuovo percorso musicale che in termini di sound si traduce in un pop di masticazione più facile, ma non per questo meno stratificato.
15 sono le tracce di questo debutto e tantissimi gli ospiti: Margherita Vicario, Fulminacci, PSICOLOGI, cmqmartina tra i feat., Populous, Frenetik & Orang3, Inude tra le produzioni e il risultato è un Tagadà sobbalzante di umori e ritmi a diverse altitudini.
Mentre sali sulla giostra del nuovo pop di Vipra, conoscilo meglio attraverso i suoi cinque ascolti fondamentali.
1. Ray Charles – “What I’d say”
Ho un ricordo chiaro dei miei tre anni ed è mio padre che mette questa canzone nell’impianto di casa e io che ballo, in quel modo in cui ballano i bambini un po’ flettendo le ginocchia, poi corro nel salotto, mi lancio sul divano quando Ray Charles fa quel “woooah!” e ricomincio. Non sapevo chi fosse il cantante né cosa diceva, ma istintivamente quella canzone mi faceva venire voglia di muovermi, senza capire perché. Ero felice.
2. Roby Rossini – “Tanz Bambolina- Prezioso & Marvin Radio Edit”
Nel 2003 facevo le elementari, era il tempo dei primi giretti con i compagni di classe, e specialmente alle feste di paese questa roba veniva sparata a cannone sulla folla delle bancarelle. Crescere in un paese di provincia al sud è significato anche vedere i più grandi che su queste casse dritte ci bevevano birre, limonavano le fidanzate o facevano a botte, provare una sorta di confuso desiderio di imitazione, una fretta di sentire le stesse cose loro. Questo pezzo è una dichiarazione d’amore bellissima, sfrontata e kitsch come un gioiello di plastica fluo, uno di quelli al polso di Marta, all’epoca mia crush.
3. Fabri Fibra – “Ma che persona”
Avevo scaricato “Turbe Giovanili” e me lo ascoltavo in giro per Roma, il mio primo anno di università. Una notte tornando a casa parte questa traccia e mi paralizzo al centro della strada deserta. Non sembrava una canzone, ma piuttosto che il cellulare avesse aperto una chiamata con Fibra, anzi con il diavolo che parlava tramite lui. Dalla prima all’ultima frase quel brano sapeva ogni cosa di me: la sensazione di essere nel posto sbagliato, di non condividere gli interessi o i sogni dei miei colleghi, di voler fare qualcos’altro anche se non sapevo bene cosa. La voce nelle cuffie mi prendeva in giro chiedendomi se avrei mai avuto la forza di volontà di essere finalmente me stesso, inquinandomi per sempre.
4. Korn – “Faget”
Questo disco -assieme a Mezzanine dei Massive Attack- era uno degli oggetti più inquietanti della mia infanzia. Cose che consideravo normali come i cd, talmente sicuri che te li davano in omaggio con L’Espresso, qui assumevano sfumature ultraterrene di cui le copertine ti avvertivano come i colori di un animale velenoso. Ogni volta che accompagnavo mio papà al negozio di dischi correvo allo scaffale a destra e li prendevo entrambi solo per guardarli. Fantasticavo su quali orrori incredibili dovevano esserci contenuti -era l’epoca in cui i genitori terrorizzati dai telegiornali a loro volta terrorizzavano i figli sui pericoli dei messaggi satanici che certi artisti infilavano nelle loro opere per farti il lavaggio del cervello- e non avevo il coraggio di chiedere di comprarne uno, sapendo che l’avrei lasciato intatto per paura di cosa avrebbe potuto evocare attraverso lo stereo della Lancia. Anni dopo ho scoperto due cose: Jonathan Davis -forse nel suo più alto stato di grazia- fa un’interpretazione incredibile di un testo che è una sparatoria scolastica, e ascoltarlo mi concilia un sonno da cui esco sempre riposato.
5. Yung Lean – “Agony”
Questo è uno dei cinque testi più belli degli anni ‘10. Punto. In un’epoca in cui ci siamo dovuti sorbire coatti allucinanti e presunti filosofi ingoiati dal dimenticatoio nel giro di due anni Johnatan Leandoer ha scritto una delle opere in cui la sofferenza è rappresentata nella sua forma meno estetica e più sincera di sempre, un monologo squagliato dagli psicofarmaci in cui ti immagini di essere troppo annichilito pure per piangere. Me la potete menare con la poesia urbana del realismo capitalista quanto vi pare, ma finché non sento fare meglio di “the dragon rests in agony” io mi riascolto lo stesso disco da quattro anni.