Kassa Overall mi accoglie nella stanza Zoom con un gran sbadiglio. Non uno spasmo irrispettoso, ma di relax e stanchezza: da me sono le sette di sera passate, da lui neanche le dieci di mattina.
“Sono appena tornato a Seattle. Ieri notte ho guidato, ho fatto un tour della West Coast, nove ore al giorno in macchina.” Gli chiedo subito cosa ha ascoltato, con tutto quel tempo a disposizione. “Un bel po’ di mia musica nuova. Penso che mentre guidi hai un’orecchio che può farti prendere buone decisioni. Poi riderai, ma stavo soprattutto ascoltando i Salmi della Bibbia in versione audiolibro.”
Perché? Gli torna utile nella musica? “Sicuramente. Non sono proprio religioso, ma spesso la leggo. Il modo in cui è scritta richiede molta attenzione, devi prenderti il giusto tempo per capire cosa stai leggendo.” Non sono decisamente un lettore della Bibbia, ma da quel poco che ricordo è un testo complesso, quasi un’intricata poliritmia. “Sì esatto. Ma poi in generale i testi ‘spirituali’ li sento dentro. Mi aprono la mente, mi mettono in un mood specifico. Quindi sicuramente hanno effetto sulla mia musica. Quando suono la batteria cerco di raggiungere delle frequenze quasi spirituali, trovare uno stato d’animo di quel tipo.”
Bastano cinque minuti per rendersi conto che Kassa Overall è un conversatore stimolante. Quest’ultimo è uno degli aggettivi più adeguati anche per la sua musica, quindi lo si sarebbe anche potuto indovinare; ma non è che questo sia un assioma valido per tutti i musicisti – me ne sono reso conto a mie spese in più di un’occasione. In ogni caso il batterista e producer originario di Seattle (ma di base a Brooklyn) è senza dubbio uno dei musicisti più interessanti degli ultimi anni, autore di un jazz creativo che incrocia l’hip- hop e la musica no-wave/avant-garde di stampo newyorkese. Una cifra stilistica veramente originale, che si fa fatica a inquadrare e che paradossalmente forse finisce per penalizzarlo: non lo si può incasellare in nulla, accorpare a nessuna scena, senza diventare insopportabilmente imprecisi. Due album ufficiali, “Go Get Ice Cream and Listen to Jazz” del 2019 e il celebrato “I THINK I’M GOOD” del 2020, più una miriade di collaborazioni e i due fortunati mixtape “Shades Of Flu”. Adesso un tour europeo che toccherà anche Milano, il 24 Marzo al Biko.
Una delle caratteristiche che colpisce di più della sua musica è che siamo chiaramente di fronte a una forma complessa, che pesca a piene mani da universi sonori spesso considerati elitari e poco accessibili. Eppure il risultato finale possiede un’accessibilità quasi magica e infatti i suoi ascoltatori provengono da mondi musicali di ogni tipo. “Mi piace pensare che sia così. Vedremo quante e quali persone verranno allo show di Milano [ndr. ride]. Ma capisco cosa dici. È strano perché io sono sicuramente un jazz nerd e un ‘virtuoso’, potrei tranquillamente fare un tipo di musica che nessuno capirebbe. Ma provo ad essere aperto, voglio che le persone capiscano. Qualcuno una volta mi ha detto: ‘se conosci veramente qualcosa dovresti essere in grado di spiegarla ad un bambino piccolo’. Non mi piace renderla inaccessibile, ma allo stesso tempo non voglio banalizzarla, sminuirla. Quindi poi uno si trova in una sorta di perenne incertezza: andare più lontano possibile creativamente parlando ma anche mantenere la porta aperta per chiunque.”
La domanda intuitiva ora è quali sono stati gli ascolti che hanno formato questo gusto e approccio così particolare. “Crescendo ho ascoltato musica grazie ai miei genitori. Mentre imparavo a camminare e leggere ascoltavo Thelonious Monk, Ornette Coleman, ovviamente Miles, Coltrane, Charlie Parker. E anche musica dal resto del mondo, come quella dell’Est Indiano. Un sacco di roba avant-guarde. Ci sono state tantissime altre cose ma, pensando alla tua domanda, questa è musica che è molto complessa ma che non riconosci per forza come tale. Non solo sono cresciuto ascoltandola, ma poi ho anche iniziato a suonarla, ho imparato a esprimere le mie emozioni attraverso forme musicali complesse. Quando produco non sono limitato dallo stile classico di produzione; questo perché non voglio che suoni noioso in primis per me. Non è un giudizio di merito su musica più minimale, anzi, a volte vorrei che anche la mia musica lo fosse.”
Mi ha colpito molto che il primo nome a venirgli in mente sia stato quello di Thelonious Monk. Una delle caratteristiche più intriganti della musica di Overall è una sorta di frammentazione ritmica costante, che dapprima avevo attribuito all’unione tra jazz e hip-hop, sulla scia dell’insegnamento di J-Dilla. Invece, pensandoci ora, è veramente figlia diretta dell’approccio al pianoforte di Monk: questa sensazione di collasso imminente, come se i brani inciampassero a ripetizione su se stessi ma in qualche modo riuscissero anche a trovare la strada di casa, ad avere senso. “È esattamente così. È l’essere volutamente sciatti, mentre in realtà è tutto formalmente giusto. Lo prendo da Monk, ma anche da Elvin Jones – e sono solo i due nomi più grandi che mi vengono in mente. Per dire, posso citarti anche Old Dirty Bastard: lo amo come musicista, ancora prima che come rapper. Il modo in cui usa le melodie e i ritmi è molto avanzato. Tutti possono suonare note dritte, ogni computer, anche perché stanno diventando sempre più sofisticati. Se devi fare qualcosa di unico lo fai ancora come essere umano.”
Mi offre una dimostrazione in diretta. Pesca da fuori l’inquadratura una maracas e comincia a tenere un ritmo zoppicante, apparentemente senza senso ma comunque coinvolgente. “Penso che passerà tanto tempo prima che un computer possa fare questo [ndr. ride]. Quel tipo di cosa che uno sente e non sa bene perché ma gli torna, gli piace.” E quindi cosa gli piacerebbe che le persone vedessero nella sua musica, proprio istintivamente? “Penso che ci sono due cose che chiunque può trarre da qualcuno che sta facendo qualunque cosa. Puoi essere impresso dall’abilità tecnica ‘oh sei così veloce, sei così bravo’, questo tipo di roba. Oppure puoi essere ispirato. Puoi osservare una persona essere se stessa mentre si esprime in modo naturale e aperto, facendoti venire voglia di farlo anche te. Ti ispira nell’essere in quel modo lì, qualunque sia il tuo campo, anche al di fuori della musica. Il mio obbiettivo è quindi quello di diventare più libero possibile come persona e di esprimermi di conseguenza. Penso che essere e vivere in questo modo, non mi viene la parola, come si dice… diventa contagioso!”. Ci prendiamo qualche minuto per ridere all’uso quasi fuori luogo di una parola diventata così inopportuna negli ultimi anni, poi Kassa aggiunge. “La cosa divertente è che mi ci sono voluti anni per arrivare a questa conclusione. Quando facevo masterclass come studente o ascoltavo interventi, spesso gli oratori alle domande rispondevano tutti con questa voce impostata e ridicola. A volte avrei voluto alzarmi per dire,‘hey non è così che parli veramente! È una risposta jazz questa, cos’è questa merda [ride].”
Pensare al jazz in modo ironico e dissacrante sembra essere la chiave di volta di alcune delle scene contemporanee che ammiriamo di più. Un approccio che ne decostruisce l’insopportabile cappa elitaria per gli ascoltatori, incuriosendone di nuovi e aumentando il bacino di utenza; ma che soprattutto crea spazio creativo per gli artisti, liberi di prendersi rischi, essere veramente liberi di esprimersi – come dice lo stesso Overall. “Io mi vedo come un pioniere. Penso che sto facendo nascere un suono tutto nuovo. Non sto cercando di sembrare arrogante, ma penso che il suono che ho messo insieme fin qui è veramente unico. L’ho sviluppato per lunghissimo tempo, non si tratta di un trend, anche se ormai lo è diventato, lo fanno tutti.”
Ma negli Stati Uniti in generale? Gli faccio notare che da fuori sembrano esserci tra macroscene: New York, Los Angeles e l’outsider Chicago con il lavoro dell’International Anthem. “Non so cosa stanno facendo gli altri. Ti posso dire che quando parliamo di NY e LA, le persone che lavorano lì vengono da tutto il paese, principalmente per studiare. Sono sicuramente i due laboratori principali ma allo stesso tempo racchiudono un mix di tutto il paese. Penso che la cosa che non si capisce da fuori è che si vedono tutte queste scene come separate (e sicuramente ognuna è diversa) ma allo stesso tempo ci conosciamo tutti e in un certo senso siamo parte della stessa scena. Penso che riducendo, alla fine dei conti gli Stati Uniti stiano producendo due tipi di suoni: c’è chi si concentra sull’aspetto virtuoso del jazz, mi vengono in mente musicisti come Immanuel Wilkins, Melissa Aldana. Poi c’è un’altra attitudine, più incentrata sul groove, l’uso dell’elettronica. Chiaramente poi il mix di entrambi gli approcci, si influenzano a vicenda.”
Ma delle centinaia di musicisti e artisti con il quale ha collaborato, c’è ancora qualcuno che gli sfugge? “Oh, sì Kanye West. Penso che accadrà prima o poi. Continuo a crescere come artista, non ho ancora toccato minimamente il mio apice. Quindi accadrà.” Questa sicurezza nei propri mezzi, molto americana, mi fa pensare che io come la maggior parte degli italiani pur ascoltando da qualche anno la sua musica non abbiamo ancora avuto l’occasione di vederlo dal vivo. Che dobbiamo aspettarci dal concerto di giovedì a Milano? “È una bella domanda. Dal vivo siamo in quattro, io suono la batteria, mi occupo dell’elettronica e della voci. Poi c’è il sassofono, due set di percussioni e la tastiera con i synth. Andiamo dall’elettronica con strofe rap fino al free-jazz. Suoniamo le canzoni come sono sul disco ma anche come punto di partenza per andare dove vogliamo. Sarà divertente.”
Direi che basta e avanza.