Per quanto sia difficile da pensare a nemmeno un giorno esatto dall’ultimo concerto di James Blake a Milano, c’è stato un momento in cui la musica elettronica faceva paura.
C’è stato un momento in cui, prima di diventare un insieme di suoni comprensibili all’orecchio umano, le frequenze elettroniche trasportavano ricordi di terrore. Delle sirene che incitavano il coprifuoco, dei fischi delle bombe.
Ma sempre in quel momento, anche dove sembrava praticamente impossibile, una serie di ricercatori e ricercatrici in giro per il mondo vedeva, come Michelangelo dentro al blocco di marmo, l’opera d’arte già completa. La potenzialità.
Tempo fa abbiamo parlato su questi schermi di musica concreta, di Pierre Schaefferd e di altri pionieri visionari delle manopole che hanno gettato le basi per cui James Blake, Aphex Twin, Björk e altrə hanno potuto creare l’arte che hanno creato e regalarci le emozioni che ci hanno regalato. Purtroppo però, come sempre nella storia recente, i nomi delle donne vanno cercati con il lanternino e (anche se Caroline Polacheck di recente si è rifiutata di suonare ad un festival tutto “al femminile”, ritenendo giustamente medievale la scelta di un gender come elemento curatoriale di una rassegna musicale), ancora una volta qui siamo convintə che sia necessario raccontare le storie di alcune pioniere che negli anni ‘70 hanno portato i sintetizzatori modulari, è più in generale gli strumenti elettronici, fuori dai laboratori di ricerca e dentro le nostre orecchie e gli schermi delle nostre TV.