Articolo di Federico Pucci.
L’eredità dell’italo disco è stata duplice.
Da una parte, ha dato spunti essenziali ai pionieri della house e della techno per superare il passato del funk e della disco, e così catapultare la musica da ballo un ipotetico futuro, creando le premesse per una cultura con nuovi suoni e nuovi concetti, arrivati fino a oggi.
Dall’altra, ha ispirato una stagione di pop italiano che segnò radicalmente un decennio, ma non attecchì al punto da modificare per sempre le regole del cantautorato nostrano, non lasciò un’eredità tangibile come la club culture fece in altri rock e pop.
E così, elettronica e canzone, qui, sono rimaste sorellastre in una cultura che venera l’antichità delle invenzioni più delle sue potenzialità attuali. Nel frattempo, la dance è stata marginalizzata, sminuita anche a dispetto di alcuni successi commerciali talvolta strepitosi. Eppure, oggi ci svegliamo in un Paese dove quasi tutta la top 10 dei singoli più ascoltati è influenzata profondamente da un genere di musica da ballare o l’altra, che sia french touch o baile funk, EDM o Hi-NRG. Cos’è successo?
Prima di tutto bisogna dire che l’elettronica in Italia non si è mai spenta, né ha mai smesso di lanciare ponti verso un pubblico altro. Se parliamo soltanto dell’ultimo paio di decenni, dalle produzioni di Lorenzo Senni o Not Waving, di Populous o Caterina Barbieri, di Godblesscomputers o Machweo, fino alle esperienze nei club o nei festival come C2C, Robot o Spring Attitude, le contaminazioni di linguaggi sono state anche frequenti, portando alcuni dei nomi appena fatti ad avvicinarsi al marasma pop: basta pensare al sound wonky e post-soul di Plush and Safe del 2015 di Godblesscomputers, che fanno pensare a James Blake in un pezzo come Closer. Ma la traduzione di ciò nella canzone italiana, a lungo è stata più teoria che pratica: gruppi come i Subsonica, insomma, sono stati sempre più l’eccezione che non la regola, mentre il rock e il pop alternativo del resto del mondo aveva appreso molto dalle culture rave e club.
Nel frattempo, però, è avvenuto un cambio generazionale poderoso, lo stesso che ha trasformato il mainstream fino a renderlo terreno di gioco del rap (una musica elettronica lei stessa, a rigore). Al comando del gusto sono arrivati ragazzi cresciuti in discoteca, non con le chitarre e i canzonieri aperti sulle ginocchia. L’hip-hop italiano, così, è stato plasmato da una serie di beatmaker italiani che o potevano vantare adolescenze passate in discoteca (Don Joe e Big Fish ne parlano nei rispettivi memoir), o si spendevano attivamente nell’incontro di linguaggi clubbing e rap (Crookers, Bassi Maestro, Mace, per fare solo tre esempi). E mentre il botto globale dell’EDM produceva risultati più o meno dignitosi nel nostro rap, ai margini del mainstream emergevano fruttuose transizioni melodico-ritmiche, come The Black Racism dei Fuera (2017), con brani come Tossico d’arte che con largo anticipo dimostravano quello che giovanissimi producer come Greg Willen e Young Miles avrebbero portato alla luce qualche anno dopo: che il rap avrebbe avuto molto da guadagnare cambiando qualche beat sincopato con una cassa dritta. Tuttavia, nel mondo cantautorale e pop italiano, più o meno indipendente e alternativo, questi scambi si erano rivelati meno fruttuosi. Ma non impossibili.
Basta pensare alle follie electro schlager di Pop X che fa rivivere in chiave post-moderna i fasti della commerciale, i suoi colori fluo, il suo nonsense e il suo sorriso spalancato sul niente: un pubblico più nutrito lo conosce nel 2016 con Lesbianitj e la sua hit Secchio, ma un giorno i libri di storia dell’hyperpop dovranno dedicare a Io centro con i missili (2009) uno dei primissimi capitoli. Anche il primo album di Jolly Mare, Mechanics (2016), specie nella collaborazione con Lucia Manca, Hotel Riviera, dimostra le possibilità di incontro fra discorsi melodici cantautorali e un’attenzione al contrappunto elettronico. Con eventuali potenzialità nostalgiche che non sfuggono ad artisti come Ceri Wax e Tatum Rush, che a giugno 2017 pubblicano una cover di Figli delle stelle che tiene insieme i tuffi avviluppati dei bassi deep house con un gusto melodico in linea con l’it-pop sempre più mainstream. Tuttavia è nel gennaio 2018 che questo mutamento di gusto si catalizza in un paio di eventi decisivi.
In quel mese escono un album e un singolo che per ragioni diverse e su versanti non necessariamente adiacenti segnano un innalzamento del tono per la penetrazione del gusto clubbing nell’estetica pop. Da una parte, arriva Cosmotronic, terzo album di Cosmo, esplicitamente centrato sull’estetica, il suono e la filosofia del clubbing. Anticipato a novembre dell’anno precedente da Turbo, il disco segna un cambio di passo nell’avvicinamento all’elettronica dell’artista: come sottolineato dal video, girato anche fuori dalle rovine della discoteca Ultimo impero, il riferimento esplicito è la discoteca. Come dichiarato dall’artista in diverse interviste, si trattava di un riavvicinamento a un gusto maturato nell’adolescenza: quello della progressive mediterranea, della dance di Gigi D’Agostino che travalica i confini e porta un pezzo di Italia nei club di tutto il mondo. Quest’eredità, ci dice Cosmotronic, è uno spazio abbandonato da abitare di nuovo, una rovina da riportare in vita. Sotto questo c’è anche un’urgenza etica profonda: l’idea che i corpi sono soggetti politici, che l’aggregazione libera del ballo è un’esperienza che emancipa e, a suo modo, rivoluziona un mondo paradossalmente sempre più disconnesso.
Nello stesso mese, Liberato pubblica un singolo che esplora altri tempi e altri suoni, rispetto alla sua produzione ancora ristretta ma già più che conosciuta: ME STAJE APPENNEN’ AMÒ fa esplodere le potenzialità dell’808 di Liberato, riportandolo ai giorni della house, influenza chiarissima del brano. E non solo, visto che da quel momento in poi la produzione dell’artista napoletano avrebbe frequentato ancora le diverse incarnazioni dance – la collaborazione sul singolo di Bawrut JE ‘O TTENG E T’O DDÒNG’ nel 2021 con l’organetto così tipicamente staccato (o stabbato) ne è solo un’altra prova eclatante. Il messaggio è chiaro: qui c’è una generazione che nei club vuole sentire trap e dembow così come nu-soul e house, e questo è il suo sound.
A questo punto non si torna più indietro: in un verso o nell’altro, i suoni dell’elettronica (arpeggi glaciali e casse dritte millimetriche su tutti) sono fair game. Il che è appropriato, visto che nel frattempo concetti come ritornelli, modulazioni, aperture melodiche, acuti sono divenuti reliquie d’altri tempi: ciò che ha fermentato per anni è giunto a maturazione.
Ad aprile di quell’anno arriva il primo album per La Tempesta di Bruno Belissimo, Ghetto Falsetto. E anche se i dieci brani sono strumentali, la sua idea di melodia segue e ripropone le intuizioni italo disco, che sarebbero risultate essenziali nelle sue future numerose collaborazioni – già a novembre un tour con e la produzione di FEMME per Francesca Michielin, prima grande emersione mainstream di questo nuovo e un po’ retromaniaco dance pop italiano in progress.
L’arrivo di una nuovissima generazione di voci, però, fa intravedere la forza delle premesse di quel momento di svolta nel dance pop alternativo, che possiamo pensare plasmate da esperienze come il tour di Cosmotronic, una fusione di esperienze del “live” e delle “serate”, culminata nel febbraio 2019 con un concerto al Forum d’Assago che per una volta, sul serio, aveva l’apparenza di un ritrovo collettivo più che della venerazione di un idolo.
Già ad aprile 2019 Ghiaccio di See Maw dimostra le potenzialità di questo nuovo spazio musicale: un disco cantautorale non solo suonato con i synth, ma che affida alle tessiture elettroniche il compito dello sviluppo quasi più che al movimento cinetico dei testi e delle melodie vocali. Quando a luglio Undamento (etichetta che del resto aveva già investito nell’elettronica pop con i già citati Ceri Wax e Tatum Rush) pubblica anche l’EP Depre Mood con il singolo Milano, questo modo di vedere le cose trova anche un aggancio al mondo reale: non tanto una nazione che va nei club, ma che aspira a quel senso perduto di aggregazione.
A proposito di costruzione di immaginari, a maggio di quell’anno arriva Lasciami andare! di cmqmartina. Il singolo dell’artista monzese ha il merito di sposare il testo con la musica in modo acutissimo: all’eponima richiesta di libertà corrisponde una produzione dove la voce si smaterializza, anticipando qualcosa di più grande della volontà del singolo artista, una comunità. Così, la promessa del club di sciogliere le inibizioni trasforma il classico autoreferenziale appello al DJ (un cliché altrimenti svuotato di significato nell’era dello streaming) in una preghiera laica per questo abbandono dell’io al gruppo, da vivere di persona.
A dicembre esce poi il primo disco di Whitemary, Alter Boy, dove l’uso magistrale della voce come strumento e un gusto raffinato per i giochi poliritmici dei layer da una parte spinge verso l’eclettismo di Four Tet o le saturazioni della techno, e dall’altra una conoscenza dei dispositivi lirici e melodici della canzone produce una serie di torch song che sanno allo stesso tempo di passato e di futuro, con una prospettiva che ribalta i consueti ruoli di genere (come in Ti dirò). È un modo per riscoprire e riappropriarsi di un potere della musica che il pop all’antica fingeva di non vedere, o delegava ipocritamente alla parola: che il punto d’ingresso di ogni canzone è comunque fisico, e quella reazione va scatenata a prescindere.
A questo punto, il nuovo indie poptronico italiano può provare di tutto. Anche contaminarsi con il folk mediterraneo o il canto tradizionale: è il caso di BLUEM che a febbraio 2021 pubblica il primo singolo LUNEDÌ, dove le possibilità della voce di esprimere messaggi ritmici e armonici trova quest’intersezione senza tempo fra un’eredità ancestrale e un presente pieno di ansie. Ma, a differenza di molti dei prodotti (anche di matrice elettronica) che popolano il mercato italiano, dentro le proposte di queste nuove voci non si avverte l’attrazione gravitazionale spaventosa verso il passato, quel gusto nostalgico al limite del morboso che accompagna qualsiasi società in crisi.
Semmai, l’enfasi è sempre verso un futuro, che il tempo accelerato in cui viviamo rende progressivamente più prossimo. Come nel caso dell’italo-iraniana NAVA che dal 2019 in avanti ha dato voce a un alt-pop inquieto che rivendica il proprio spazio dentro un suono che prende le mosse da trip-hop, techno, dubstep in canzoni come Ninfa aliena (2023). Scrivendo melodie vicine al canone classico persiano dei dastgāh – modi e scale tipici e inconfondibili – e poggiandole sopra strutture che non devono per forza sottostare all’armonia e alla metrica occidentale, NAVA ci permette di vedere oltre un presente asfittico, che rifiuta di vedere le differenze già esistenti o, peggio ancora, vorrebbe ricacciarle da dove sono venute.
In questo modo, il pop elettronico italiano non deve immaginare il futuro: gli basta guardarsi intorno e raccontare cosa vede.
Ti abbiamo raccolto (quasi) tutto il nuovo scenario pop elettronico made in Italy in questa playlist: