Testo di Federico Pucci.
Qualche settimana fa abbiamo parlato dello Yamaha DX7, il sintetizzatore che ha definito in modo inequivocabile l’era digitale degli anni ‘80 e ancora oggi si fa sentire dentro molta musica, non necessariamente a caccia di facili nostalgie. Ma prima del DX7 c’è stato un altro strumento che ha lasciato un’impronta talmente profonda su quel decennio da vedersi ancora oggi. Si tratta di uno degli ultimi grandi colpi di genio commerciali dell’era analogica, e il suo suono continua a essere rilevante proprio per gli espedienti che i suoi progettisti originali avevano inventato pur di sopravvivere alla concorrenza. Stiamo parlando del Roland Juno-60.
Un po’ di storia.
La famiglia Juno di Roland nasce nello stesso contesto che diede vita al DX7: un cambio di paradigma tecnologico (l’irruzione del digitale nella sintesi del suono, che Yamaha riuscì a tradurre prima di tutti in un prodotto accessibile) e un cambio di filosofia degli strumenti elettronici (la democratizzazione dei synth). In un mercato che alla fine del decennio precedente si era saturato di gingilli costosissimi e per esperti, si era aperto uno spazio negli anni ‘80 per allargare la platea: gli ascoltatori della musica prodotta con i sintetizzatori volevano a loro volta fare musica con i sintetizzatori, e abbassare la soglia d’ingresso sembrava una mossa corretta a livello commerciale e culturale. La strategia di Roland per abbassare i costi si palesa nella famiglia Juno: chiamata – con malcelato sessismo – come la moglie di Giove (Jupiter era la linea “premium” di tastiere dell’azienda di Osaka) questa nuova branca di strumenti doveva riuscire a offrire un suono sufficientemente caldo e potente con un solo oscillatore, e potenzialmente andare a rimediare ad altre carenze dei suoi colleghi di lusso. La polifonia, l’uso di un controller digitale per l’oscillatore (DCO) che ne stabilizzava l’intonazione, e infine il ricorso a un sub-oscillatore, un filtro e il leggendario chorus per rendere più imponente il suono uscito dalla macchina. Nel 1982 arrivano i due modelli Juno-6 e Juno-60, quest’ultimo ha in più un banco memoria con 56 spazi per salvare altrettanti suoni, o per utilizzare i patch di fabbrica se ci si sente pigri (qui li puoi sentire tutti), e sono un moderato successo. Farà molto meglio dal 1984 il successore 106 (a quel punto il Juno-60 sarà già uscito di produzione). Ma – dovremmo saperlo – i numeri non sono tutto nella musica. E l’influenza di questo strumento si sarebbe fatta sentire eccome.
Intanto per cominciare, la sua affidabilità nell’intonazione lo rese uno strumento sicuro e accessibile a molti: fu il primo synth comprato da Lol Tolhurst dei Cure, quando fece il passaggio dalla batteria alle tastiere, e quindi lo puoi sentire abbondantemente in dischi come The Head On The Door. Poi, la potenza generata dalla sua architettura ingegnosa ne faceva un generatore di suoni imponenti: il basso di Sweet Dreams (Are Made Of This) degli Eurythmics sta a dimostrarlo. Infine, il suo prezzo ridotto (poco più di 1000 dollari all’epoca dell’uscita) aprì le porte a nuove generazioni di musicisti, che non avevano bisogno di avvicinarsi a uno strumento con un camice bianco. Il Juno, in questo senso, rappresenta gli anni ‘80 meglio di ogni altro strumento: reduce di un sogno che ormai sta sbiadendo, rappresentante di una sorta di working class che mira in alto, questo synth ha ottenuto vittorie morali da vero underdog, diventando un’icona del suo tempo al di là dei suoi meri risultati oggettivi. Un po’ come Jennifer Beals che passa dalla fonderia al balletto in Flashdance, il Juno-60 arriva dove non si sarebbe aspettato: è futuristico ma già datato; è stentoreo ma modesto; è “sopra le righe” come ogni eroe di quel decennio.
La prima parte dell’era MTV, quindi, è ricca di brani che fanno uso di una delle 56 patch di fabbrica del Juno (magari con qualche minimo aggiustamento): la parte melodica con quel riff da velocisti cosmici di Take On Me degli A-ha; i violini di plastica e lacrime di Time After Time di Cyndi Lauper; quasi certamente il basso pugnace di West End Girls dei Pet Shop Boys; ma pure il pizzicato surreale di Boadicea di Enya, canzone che qualsiasi affezionato di DLSO è obbligato a conoscere perché costituisce la base (cioè il sample) di Ready Or Not dei Fugees. Tutto discende da uno strumento nel quale modellare il proprio suono individuale, e quindi spiccare rispetto alla massa, era tutto sommato semplice e intuitivo con i controlli a slider.
L’ultimo viaggio nella memoria antica dobbiamo farlo citando un’altra feature del Juno-60: il suo arpeggiatore e la possibilità di farlo triggerare da un’altra famiglia di strumenti decisamente influente in casa Roland, le drum machine. La compatibilità interna tra gli strumenti Roland permetteva a chi possedesse una TR-909 di sincronizzare la sua cassa con l’arpeggiatore del Juno-60: non serve molto altro per fare una sezione ritmica deep house, a conti fatti. Anzi, un pezzo come Can You Feel It è letteralmente retto proprio su questo binomio. Tanto che dei revivalisti della deep house come il duo inglese dei Disclosure nel loro set live si presentano proprio con un Juno-60, che si può sentire ad esempio nel basso di Hourglass (dopo il drop, al minuto 2:00 circa) dall’album Caracal.
Il Juno-60 ha un vantaggio culturale importante: si è legato a una storia musicale che non ha confini di genere e di target; lo senti squillare in una hit commerciale come Last Christmas così come palpita nelle ossa di una traccia dance underground. Ma sempre con una voce unica: anche con timbri diversi, anche creando nel minimo dettaglio le proprie patch, questo synth si distingue per la tenacia e l’impatto del suo suono, derivante tanto dal suddetto chorus che rende “esagerato” ogni registro, anche quello di un modesto clavicembalo; quanto da un attacco importante, che anche oggi i VST e plugin vari che dovrebbero emularne il suono difficilmente riescono a restituire. Ed è proprio in questa combinazione di caratteristiche che si vede la ragione del suo ritorno in auge.
Il revival del Juno-60 è una tipica storia degli anni Zero: quando una nuova generazione si affacciò in un mercato musicale crollato verticalmente, mentre faceva i conti con il recupero estetico di un ventennio prima (secondo i classici cicli storici della nostalgia), si presentò la condizione ideale per il ritorno del vecchio Roland. Uno strumento economico sul mercato dell’usato, culturalmente legato a una vasta serie di generi musicali senza essere legato a nessuno in particolare in modo troppo stretto, con un suono capace di emergere nel mix sia per i bassi sia per le frequenze più alte, aveva tutto quello di cui c’era bisogno per i nuovi aspiranti artisti. Come un coltellino svizzero, utile che si cercasse di rivitalizzare folk o chamber pop, garage rock o dance punk, il Juno-60 ha lasciato una seconda impronta decisiva all’inizio del millennio. Jesse Keeler dei Death From Above 1979 nel 2004 usò l’attacco deciso del Roland per sostituire il basso elettrico in pezzi come Going Steady. Altri nomi probabilmente ignoti ai lettori nati dopo il 1990 come Late Of The Pier o Klaxons l’hanno gelosamente custodito. Lo si sente (e si vede) in My Girls degli Animal Collective, una clash di house e rock californiano proiettato nel cosmo. Il vantaggio principale del vecchio Roland, a questo punto della faccenda? Il prezzo ridotto.
Se dovessimo individuare un momento decisivo per il ritorno del Juno negli armamentari dei produttori e musicisti odierni, come Jack Antonoff che lo usa praticamente in ogni traccia delle migliaia che produce, dovremmo parlare dell’uscita di The English Riviera dei Metronomy. A detta di molti affezionati e collezionisti, quell’album del 2011 riportò talmente in auge il Juno-60 da comportare una decisa inversione nelle tendenze dei prezzi.
“A quell’epoca, tra il 2009 e il 2011, i Juno-60 costavano pochissimo quindi c’erano tantissime band che lo avevano”, ha ricordato il gruppo inglese in un’intervista. Cercavano, insomma, uno strumento sufficientemente versatile da coprire le varie atmosfere di un progetto che volutamente si presentava come nostalgico, un omaggio alle memorie delle villeggiature giovanili. The English Riviera, un disco il cui impatto sul revival di funk e disco nello scenario alternative e indie pop non può essere ignorato, non si rifà mai precisamente a un singolo timbro storicamente connotato del Juno-60: è proprio il suo spirito, le sue infinite possibilità, la sua capacità di aspirare a più di quello che vale, a essere intessuto in questo disco.
Proprio perché il suo suono caldo ed energico è sempre riconoscibile, a prescindere dal timbro che si sta cercando di generare, il Juno-60 ha un’identità precisa che trascende la singola e specifica reference: suonare un Juno-60 è un atto nostalgico non solo perché qualsiasi VST o plugin di workstation digitale può fare lo stesso lavoro senza alcun ingombro e a un trentesimo del costo, e quindi il gesto in sé costituisce un feticcio musicale; ma perché il carattere di fondo dello strumento emerge a prescindere dalla volontà di suonare qualcosa di unico.
Ma questo rende lo strumento anche caratteristicamente a-nostalgico: come una Fender Jaguar che non deve essere per forza legata agli anni ‘60 se suonata con intenzione originale, così un Juno-60 è un sopravvissuto di un’epoca lontana che ancora ha molto da dire. E che proprio grazie all’accessibilità, versatilità, facilità, varietà della sua natura è finita nelle mani di artisti che non hanno alcuna intenzione di fare il cosplay degli anni ‘80. Un esempio su tutti è Tyler, The Creator: nel suo studio hanno spazio tutti i fratelli della famiglia Juno: puoi sentirli virtualmente in ogni traccia di Flower Boy e Igor, dove Tyler ha accuratamente sovrapposto strati di synth differenti per ottenere combinazioni sempre diverse, ma rinunciando raramente al suo Roland. Lo senti con tutta probabilità nel pizzicato basso e nei violini scivolosi dell’intro di Earfquake, e poi subito dopo nei pad che tirano avanti l’armonia – e sappiamo bene che per Tyler gli accordi sono la cosa più importante di una canzone.
Un altro artista piuttosto ossessionato da questo strumento è Daniel Lopatin, cioè Oneohtrix Point Never. Il musicista e produttore ha dato addirittura un nome al suo Juno: Judy. Come raccontò in un’intervista del 2010, lo ha ereditato dal padre, che lo comprò nel 1983, quando ormai l’uscita del DX7 aveva reso obsoleto quel synth analogico. Lo strumento è passato di padre in figlio, che abbandonati gli studi di piano si dedicò al Juno e lo usò per cominciare a fare musica. Ogni singolo album di OPN e molte delle sue tournée (come – si spera – quella che lo porterà al Teatro Romano di Spoleto il 3 luglio e alla Triennale di Milano il 5 luglio) contiene un apporto di Judy. Che piace a Lopatin proprio per la sua semplicità: “Non sono interessato di per sé alla sintesi del suono: mi piace uno strumento come il Juno che potrebbe essere programmato da un bambino”. Il rapporto viscerale con questo strumento si può comprendere ascoltando con attenzione Blue Drive, dall’album The Fall Into Time del 2013: una jam tra uomo e tastiera, dove le possibilità della seconda sono a disposizione della fantasia del primo.
Lo strumento e la sua sopravvivenza al tempo come occasione di incontro fra generazioni è un tema subliminale che non ricorre solo in OPN, ma in un altro artista di genere molto differente, che abbiamo citato parlando del DX7. Tra le tastiere del cuore di Mac DeMarco c’è anche spazio per il Roland Juno-60. La sua relazione speciale con gli strumenti, luoghi sui quali si crea un suono che significhi qualcosa di profondo e non soltanto “armadi” di “vestiti” sonori da indossare, emerge chiaramente anche con questo storico synth. Per esempio, il suono calante ed evanescente di Watching Him Fade Away rispecchia in modo mirabile (e commovente) la sua riflessione sull’assenza del padre e il presentimento della sua lenta e inesorabile fine: questo accordo che in breve tempo si scioglie nel silenzio, per essere sostituito subito da un altro accordo, sarà come mio padre, assente cronico, che una volta sparito definitivamente sarà solo un’ennesima memoria sbiadita? Il suono non come occasione di nostalgia, ma come definizione di uno stato d’animo ambiguo, un grosso “what if” sulla propria vita.
Anche se le possibilità quasi illimitate dei software hanno reso quasi superfluo il ricorso a questi synth d’epoca, questi hanno ancora uno spazio negli studi di artisti anche molto importanti. Il basso pungente di Borderline di Tame Impala (che potrebbe anche essere un MiniMoog tenuto al guinzaglio); gli accordi che dettano l’armonia (ma non l’inciso, quello è un Prophet) di Blinding Lights di The Weeknd. In un modo o nell’altro si ritorna sempre all’origine. Non perché sia facile, tutt’altro: nel suo ultimo disco, Relax, Calcutta ha utilizzato quasi solamente VST e plugin, come ha detto lui stesso in una serie di Stories su Instagram. Eppure, per i singhiozzi elettronici sul finale di SSD ha utilizzato un Juno-60 “e tanta pazienza” – tanto che dal vivo sembra suonarli con un sequencer, anche se comunque un Juno-60 fa parte del set up della band. Di nuovo, come nel caso di DeMarco, una canzone che affronta il tema del ricordo, dove trova spazio uno strumento che vive in un ricordo elusivo. Potrebbe essere solo un caso, ma è bello pensare di no.
Non è soltanto la facilità, insomma, che avvicina a questo particolare strumento. Fare musica, infatti, non è soltanto raggiungere un risultato, trovare quel suono che si ha in mente e servirlo all’orecchio del pubblico. Fare musica significa prima di tutto andare a caccia di quel suono, immaginarlo e poi provare a riprodurlo nella realtà, eventualmente facendo i conti con le proprie possibilità tecniche o di quelle degli strumenti a disposizione; trovando compromessi; o magari scoprendo nuove strade che non si erano immaginate. In questo senso ogni strumento (e sicuramente il Juno) è come una persona: se Soccer Mommy gli ha affidato l’assolo di circle the drain, se Rex Orange County gli ha affidato la parte principale di 10/10 è perché ci hanno trovato il giusto apporto alla loro voce. E così dovrebbe fare chiunque voglia fare musica: non mirare al traguardo, come gli strumenti AI ad esempio prometto, ma preoccuparsi del tragitto.