Le scorse settimane hanno richiesto tanto autocontrollo per non esplodere alla notizia che non uno, bensì due dei nostri artisti del cuore usciranno a breve con un nuovo disco. Ma quando abbiamo pensato di scrivere questo articolo, prima che tutto questo succedesse, l’idea era nata da un post in cui Steve Lacy si lamentava della troppa pressione su di lui: “Album di qua, album di là, dov’è finito il ‘ciao’?”.
Subito sotto, Tyler, The Creator si affrettava a commentare “Ti capisco è una noia, soprattutto se non è mai uscito dalla mia bocca che un album era in arrivo, io voglio fare l’attrice lmfao”. Un paio di giorni dopo il commento è sparito, poco prima che Tyler pronunciasse per la prima volta la parola Chromakopia. La lamentela, poi, è continuata ieri, quando con il testo di Noid, lo stesso Tyler ha manifestato, verbalmente e visivamente in un video pazzesco con la sua ormai bestie Ayo Edebiri, il suo estremo disagio nel convivere con la fama e il bagaglio emotivo che deriva dall’essere famoso.
Ma perché lamentarsi? In fondo scrivere la musica è il loro mestiere no? Perché io vado in ufficio tutti i giorni e Frank Ocean non può entrare in studio e buttare giù 12 tracce e un concept? Con tutta la gente che lo circonda e che potrebbe aiutarlo, davvero non può fare un album? Scrivere un disco è questione di pressione sociale, di voglia di fare, o di dovere verso i fan?
Queste sono le domande che almeno una volta nella vita ci siamo fattə, quando stanchə di sentire Pyramids per la 500esima volta abbiamo puntato il nostro dito pieno di risentimento contro Frank Ocean o altre figure oscure del panorama musicale che, per qualche ragione, hanno una frequenza di pubblicazione molto più dilatata rispetto ad altre.
Per rispondere a questi e ad altri quesiti, ci toccherà porcene almeno altri due.
Il primo: qual è il vero motivo per cui alcunə artistə non scrivono più dischi?
Mettendo da parte per un attimo il risentimento e concentrandoci un attimo, le ragioni possono essere infinite. When I Get Home di Solange usciva completamente a sorpresa ben 5 anni fa, ma il fatto che da allora non sia spuntata sua nuova musica su Spotify, non significa che sia rimasta con le mani in mano. La mente di Saint Heron, infatti, negli ultimi anni ha messo da parte la centralità della propria figura per lavorare dietro le quinte come compositrice classica e direttrice artistica per progetti teatrali e intersezionali tra architettura, moda e design.
Per pensare ad altre casistiche, la mente vola ad André 3000, eternamente inseguito dai fan per avere qualcosa di nuovo. Nessuna preghiera, però, è stata più forte della sua forza (e del coraggio) nell’uscire non solo con un disco (di cui abbiamo parlato qui) che ha marcato una separazione importante dal passato che lo ha reso una divinità, ma anche con una serie di interviste in cui non ha nessun timore nel confermare questa rottura e nel dire “Io il rap non so più farlo, non penso di avere più nulla che valga la pena di essere raccontato”.
Non ci dilungheremo a parlare della nuova carriera beauty di Rihanna, né di quella da testimonial di A$AP Rocky, che l’ultimo album lo ha pubblicato nel 2018. Insomma, i motivi per cui non scrivere un disco dunque possono essere tanti, tutti leciti e sempre diversi, come diverso è il caso di artistə come Lauryn Hill, che con un solo disco ha cambiato (insieme a tutte le persone che quel disco hanno contribuito a costruirlo) la storia della musica, e le è stato sufficiente praticamente per sempre.
E poi è arrivato internet, e con lui il secondo quesito.
Fino a che punto abbiamo davvero il diritto di decidere cosa un artista debba o non debba fare?
Il web ci ha fatto credere di essere così vicini ai nostri artisti e artiste preferitə quasi da poterli toccare, da poter essere loro amici. Ci fa sentire come se vivessimo con loro, e dunque quasi come se sapessimo che cosa vuol dire fare i conti con il peso sia della fama che dell’estro creativo. E quando il venerdì apriamo la nostra playlist e ascoltiamo un nuovo brano, è come un giocattolo nuovo che all’inizio è il più bello del mondo, ma che ci stanca subito. Non ci lasciamo il tempo di affezionarci, perché dopo due, tre volte ne vogliamo (e generalmente ne abbiamo) subito uno nuovo.
È come un vestito di pacco, lo apri, lo indossi e ti senti dio. Dopo il primo giro in lavatrice perde smalto, perde significato. Ci serve un capo nuovo. E così è con il nuovo consumismo musicale. Forse abbiamo dimenticato l’umanità degli artisti? Il loro diritto a vivere di ciò che vogliono? Il loro diritto a potersi fermare?
Quando si parla di Kanye West, che tra i personaggi da citare è forse più controverso, qualcuno potrebbe dire: è vero, non è il Kanye di un tempo, ma lo si vuole bene per quello che è stato. Anche se adesso fa altra musica, parla di altri temi, sceglie altri linguaggi. Anche se ultimamente i suoi prodotti non funzionano come un tempo, è pur sempre lui. Meglio lui che almeno la musica la fa, di altri che la musica non la fanno.
Kanye non ricade certo nella sfera di chi non fa nuova musica (sulla carta, il suo nuovo album Bully sarebbe in arrivo in data da definire). Rientra però nella sfera degli artisti che ultimamente non ci danno quello che (in tantə, non tuttə) ci aspetteremmo da lui. Ye, così come Frank Ocean quando si alza dal palco del Coachella, come Steve Lacy che con rabbia distrugge una camera sul palco davanti a tuttə, come Tyler che dice “Don’t call me King, I’m not your twin / I’m not your brother, we just met”. Tutti esseri umani, con le loro fragilità, le loro ferite, come me che sto scrivendo e te che stai leggendo. Solo con gli occhi di tutto il mondo puntati addosso.
Possiamo pensare ai nostri artisti e artiste del cuore come a degli industry plant, che ci iniettano una dose regolare di un prodotto sintetico.
Oppure possiamo fare un respiro, avere pazienza e, facendo pace con il fatto che in potenza un nuovo disco di quell’artista potrebbe non arrivare mai, aspettare il prodotto sincero e onesto che ci cambierà davvero la vita.
La scelta sta solo a noi.