Testo di Giulia Maria Scrocchi
“Se volete conoscere un popolo, dovete ascoltare la sua musica“. Questa affermazione di Platone oggi può risuonare come un comandamento antico, ma è ancora capace di attraversare i secoli per rivelare una verità universale: le note sono lo specchio più profondo dell’anima di una civiltà. La musica, intessuta nelle pieghe delle sue tradizioni orali, non è mai stata solo suono, ma la voce viva di identità complesse e stratificate. Il ballo? Beh, il ballo è ciò che ci unisce.
La musica in quanto forma d’arte dinamica, ha sempre agito come un potente vettore di trasformazione sociale, capace di dissolvere confini politici, culturali e sonori.
Perché ecco, lo diciamo nero su bianco: la ricerca della connessione tra patrimonio, identità, cultura e contemporaneità è ciò che deve necessariamente posizionarsi alle radici della musica odierna, soprattutto quando si cerca di andare “più a fondo”, di andare “oltre” l’ascolto.
Negli ultimi anni, nel contesto di un Medio Oriente frammentato ma artisticamente vivo, intenso e vivace, si assiste all’emergere di una nuova ondata sonora che fonde tradizioni arabe millenarie con le complessità e le urgenze della contemporaneità. Questo processo ha reso la scena musicale della regione del SWANA (Southwest Asia and North Africa) un terreno fertile per sperimentazioni che spaziano dall’elettronica all’hip-hop, ridefinendo il concetto stesso di identità sonora.
La scena elettronica underground nel SWANA si estende come un arcipelago: ogni regione mette sul tavolo le proprie tradizioni di musica orale e folklorica insieme alle loro storie geopolitiche e sociali. Quello che ne consegue è una mappa musicale variegata, diversa in termini di suoni, ritmi o tematiche. C’è ben poco che collega lo stile di ogni artista con l’altro, se non il desiderio comune di spingere i suoni in luoghi nuovi e stimolanti, creando rivisitazioni nodose di hip-hop, techno, breakbeat e ambient.
L’esplorazione che il producer egiziano ZULI ha fatto degli habibi della generazione dei suoi genitori e tutto il lavoro di tuning e musicologia fatto da Deena Abdelwahed e Khyam Allami in Jbal Rrsas جبل الرصاص sono due ottimi esempi per iniziare a mettere meglio a fuoco quello di cui stiamo parlando.
Proviamo quindi ad esplorarla un po’ più a fondo, questa nuova mappa-sonora, seppur solo in parte.
In un angolo, DJ e produttori elettronici si specializzano nella fusione di field recordings, percussioni, maqamat e beat elettronici. In un altro ancora, artisti si riuniscono per formare gruppi e progetti collaborativi che spaziano dalle sperimentazioni del rock arabo al jazz.
Alcuni artisti guardano all’esterno, all’ambiente urbano caotico e in rapida evoluzione, per trovare ispirazione. Altri guardano all’interno, sfidando se stessi e gli altri a ribaltare le nozioni preconcette sulla musica araba.
Da qualsiasi angolo lo si guardi, emerge una sola lettura: nella regione del MENA, da qualche anno, sta accadendo qualcosa di grande.
Se pensi che la musica araba sia solo pop o se la immagini stigmatizzata in stereotipi, nelle righe a seguire scoprirai che non è così. E no, non cadremo nella trappola dell’esotismo.
In questo contesto dunque, il rapporto tra tradizione e innovazione diviene lo spartito su cui produrre nuovi linguaggi, rivelando una musica araba non più relegata a spazi limitati o “ostaggio” delle sue stesse tradizioni, ma come terreno fertile per l’innovazione sonora e baccello di una nuova comunità.
Una comunità che, non ha confini, grazie alla capacità di fondere campioni tradizionali con beat ipnotici e strutture techno o sperimentali; dimostrando che la musica araba non solo può essere smantellata dalla sua marginalizzazione, ma anzi, può diventare (e per i più attenti, lo è già) una delle sue voci più potenti.
Ma allarghiamo per un attimo la prospettiva. In una industria musicale che tende ad omologare le produzioni musicali l’emergere di nuove narrazioni sonore provenienti da SWANA evidenzia come la cultura musicale possa fungere da strumento di decolonizzazione simbolica. Sicuramente in questo, internet ha giocato un grande ruolo: su un livello ha facilitato l’accesso a musica altrimenti tradizionalmente confinata, appunto, ai circuiti locali e su un altro, ha permesso ad artisti, prima marginalizzati, di avere velocemente accesso a musiche e sonorità che fino a quel momento sembravano troppo lontane. Con questi presupposti, generi europei come grime, hip-hop e techno diventano ingredienti di un ”nuovo genere”, creando un “sincretismo-digitale-musicale” di cui avevamo bisogno.
Intorno al 2020 Beirut rappresentava la spina dorsale della club culture nel mondo arabo, in quanto roccaforte della disco e meta per notti sudate nelle dancefloor della città fin dagli anni ‘90. Oggi però, l’attenzione si è spostata su Il Cairo. L’Egitto è davvero un’ottima testimonianza di cosa significa essere una vera e propria fucina, aprendo già dagli anni 2000 (con artisti come Hassan Khan e il suo progetto Tabla Dub) una finestra su un immaginario sonoro che rompe gli schemi dell’esotismo e restituisce dignità a espressioni musicali altrimenti estromesse.
Artisti come El Kontessa, ZULI e ABADIR, ad esempio, dimostrano come i suoni del Cairo possano perfettamente interfacciarsi con la bass music britannica, sfidando la rigida categorizzazione dei generi e delle origini (e perché no, superandola!). Forse Mahraganat e shaabi rimangono gli stili più popolari, ma ciò che possiamo ascoltare oggi è un’alternativa. E… quanto è importante averla? Sono nuovi respiri, nuove interpretazioni.
In questo labirinto geografico di sonorità, una (nuova) scena elettronica emerge con forza, creando una rete di artisti che tracciano percorsi musicali , con talenti provenienti da vari Paesi e generazioni: 3Phaz, Liliane Chlela e 1127 si affiancano a una nuova ondata di giovani promettenti, come Van Boom, Ashrar, Rama (co-founder insieme al già nominato ZULI della label irsh) Youngwoman, Lazergazer, Marwa Belhaj Youssef, Hassan Abou Alam, Postdrone e i vincitori della classe 2024 di Shape Platform, Assyouti uno dei migliori DJ della nuova generazione e Abdullah Miniawy, che ha già fatto parlare di sé con una manciata di uscite per etichette britanniche come The Trilogy Tapes e AD93.
Cosa hanno in comune tra loro? Di nuovo, tutti questi DJ e producer hanno dato vita a uno spazio sonoro dove la tradizione musicale araba non è semplicemente evocata, ma sovvertita e ricostruita. Allargando sempre di più i confini di quanto è possibile sperimentare, creando veri e propri “club experiments” concepiti per il ballo e per la mente.
Anche Giordania, Tunisia e Libano con i loro rispettivi rappresentanti (per citarne alcuni…) come Toumba, Azu Tiwaline, Ammar 808 e DJ Plead (australiano ma con origini libanesi) hanno molto da dire o meglio, hanno la loro, da dire.
Di nuovo tutto si intreccia: generi come il rap, il jazz, la techno e il noise in opere che rifiutano le etichette semplicistiche, creano un dialogo dinamico e complesso con la cultura araba, creando interconnessioni che non solo arricchiscono la musica, ma la rendono un potente strumento di resistenza e identità costruendo una narrativa collettiva ben più ampia. Quanto più ampia? Tanto da far produrre a TVSI – artista italiano con base a Londra – questa traccia.
All’inizio dell’anno ho avuto la possibilità di chiacchierare con Deena Abdelwahed e ci fu un concetto tra tutti, che mi fece riflettere. Deena definì “musica di strada”, la musica nata dalle comunità (che esse siano quelle di estremismi come footwork o di tribù). Un concetto così semplice eppure così significativo: la musica di strada è quella fatta dalle persone, per le persone, con temi veri – reali – di cui le persone parlano per strada.
E se è vero che la “musica-di-strada-per-eccellenza” è l’hip-hop, allora è altrettanto vero che merita qui, in questo spazio, una piccola lente di ingrandimento.
Muqata’a, riconosciuto come uno dei padrini dell’hip hop a Ramallah, in Palestina, è un esempio estremamente appropriato: ha costruito la sua carriera con Ramallah Underground (2002-2009), un gruppo hip hop fondamentale che ha influenzato un’intera nuova generazione di artisti palestinesi, ma è anche rispettato dalla scena elettronica per i suoi beat con uscite da solista su Souk Records (sublabel di Discrepant) e l’italiana Hundebiss.
Sempre più artisti del SWANA con particolare attenzione a Libano, Marocco, Egitto e Palestina si sono avvicinati all’hip-hop ed è affascinante notare cosa hanno in comune con la scena elettronica. Entrambe sono tutt’altro che omogenee: una serie di talenti che hanno forgiato le proprie voci e identità. Tutti diversi. La piattaforma Rap Shar3 | راب شارع fa un prezioso lavoro nel documentare e ricercare le voci più autentiche della nuova generazione al mic, in particolare con la serie “Street Rap” in diversi paesi del SWANA.
Puntando l’attenzione sul Libano, menzione d’obbligo va a El-Rass, conscious rap e rap di strada in un unico artista. Il suo stile è caratterizzato da una raffinata trama intertestuale e da un utilizzo magistrale delle sfumature estetiche della lingua araba, capace di evocare con potenza espressiva mondi simbolici e culturali profondi.
Anche qui l’Egitto e in particolare la città Alexandria, puntano la bandiera sulla mappa. Dalla scena egiziana emerge anche Dareen. Con lei, altre donne si fanno strada: Soultana (prima rapper donna riconosciuta), Mayam Mahmoud e Asayel Slay, artista saudita che ha attirato l’attenzione con Bint Mecca, un’ode all’orgoglio femminile saudita. Il brano, pur provocando critiche aspre da ambienti conservatori che hanno causato l’arresto dell’artista, continua a testimoniare le sfide e le complessità dell’espressione culturale in Arabia Saudita.
L’ascesa di paesi come Libano, Egitto e Giordania come nuovi epicentri della cultura club e della musica di strada arabe rappresenta una risposta a un mondo che richiede nuove narrazioni e modalità di espressione sonora. Quasi di soppiatto e in maniera laterale questi artisti hanno battezzato un modo tutto loro – diverso nel genere e nello stile, ma simile nel messaggio – utile per disegnare un panorama musicale elastico in grado di estendersi e contrarsi. Una forma mentis autonoma e singolare, consapevole delle proprie rappresentazioni.
Un’esperienza multimodale che altera e deforma lo spirito classico di quella creatura irrequieta, che è la musica elettronica: urbana ma tribale, drammatica ma amena, minimale ma massimalista, piena di contraddizioni in un fragile equilibrio tra maqamat e… bassi.
In fondo questo articolo non fa altro che narrare la storia di chi, alla più conservatrice e tradizionale musica folklorica, ha opposto una reazione. Che si tratti di una reinterpretazione, o di un rigetto, il fine è comune: creare qualcosa di autentico e personale, sviluppando linguaggi originali e in grado di proiettare la musica oltre i confini (che l’uomo ha inventato) esercitando così una profonda e nuova influenza che ha portato – pensate che paradosso – attraverso la tradizione, una nuova, ventata di innovazione.