Tra le mie passioni segrete, c’è quella della ricerca della metafora nascosta in un titolo discografico. Spesso distinguente contraddizione, altre volte pura sintesi, talvolta aumenta il mistero. Lo stesso che aleggia, nell’intitolare “Everest” un disco che parla di ricordi, e di morte, di continuazione nonostante tutto, di rinascita sotto altre forme.
Le risposte possibili sono tante. Può rappresentare la forte labilità della vita, rappresentata dall’alpinismo come forma di rapporto tra uomo e montagna, oppure il ritratto di un paradiso immaginario. Opto per una più semplice evocazione del freddo e della mancanza d’aria. La stessa di quando viene a mancare una persona cara. Denis Wielemans, ex batterista della band belga, un giorno di tre anni fa imboccò una curva, nei pressi di Bruxelles, per non uscirci mai più. Immaginare dei ragazzi elaborare un lutto così precoce è impresa disturbante, quanto triste e stucchevole da comprendere. L’incomprensibilità di certi episodi, il day after, la stessa che aleggia negli arpeggi di “Missing”. La conta dei turbamenti interiori, scanditi da un suono secco di drum machine, il realizzare una vita spezzata a soli ventotto anni, in un giorno di fine primavera. Strano paradosso di una natura che rinasce, nell’oscurità di una morte improvvisa. Quasi una fulminante ispirazione, per la bellissima “We are The Living”, e le sue aperture mozzafiato, d’altissima fattura, sospese tra Elbow e Doves, ritratto di come veniva concepito l’indie pop dieci anni fa. Un senso di rinascita che fluttua, come le meravigliose tastiere che circondano ogni linea di chitarra e di basso, in un insieme di sensazioni forti, quanto intense.
Ma “Everything Must Go”, recitava un famoso disco dei Manic Street Preachers, imperniato da sentimenti simili. Lo spesso auspicio che è presente in “Not Dead”, quasi una ballata della rinascita e dei ricordi, le liriche che scandiscono il tutto, quasi fosse una preghiera laica, quanto personale.
Il finale, affidato alle tenebre di “War”, e le sue sotterranee cantine dell’orrore, quando il dolore riemerge, nei simbolismi più impensabili, nelle forme più disparate. Nei suoni, nella voce che ricorda Kaiser Eistrup dei Kashmir, nelle sfide di domani. Nell’andare avanti, nonostante tutto.
Un album che è quasi un commiato, intimo, quanto sincero nelle elaborazioni. Come una confidenza davanti ad un caffè, in un momento inaspettato. L’attesa di una nuova speranza, come quella di un raggio di sole, tra le nubi del piovoso Belgio.