Sarà che l‘All Star Weekend è ancora vivo nei nostri ricordi, sarà che settimana scorsa si festeggiavano i 51 anni di Michael Jordan, ma ci è venuta voglia di raccontarvi un segreto (di Pulcinella): se l’All Star Game dell’88 non si fosse disputato a Chicago, a quest’ora Nate Robinson non sarebbe l’unico ad aver vinto tre Slam Dunk Contest. Lesa maestà? Probabilmente no. Dominique Wilkins avrebbe decisamente meritato di vincere quell’edizione, tuttavia in piena era Jordan è un peccato che possiamo perdonare alla NBA. A dirla proprio tutta, DW avrebbe dovuto vincere anche nell’86, solo che a vedere uno alto quanto me (170 cm) schiacciare in reverse ci si impressiona facilmente. Il tale era Spud Webb.
Avrete capito che stiamo parlando di uno dei migliori schiacciatori, per tanti il migliore, della storia di questo strano gioco con la palla arancio a spicchi, e che il soprannome “The Human Highlight Film” non gli è stato affibbiato proprio per caso. Dominique, che è nato a Parigi da un militare dell’ US Air Force, quando salta, tanto, resta in aria un’eternità facendo cose non consentite a 6-7 dei super atleti. Non vincerà mai nulla, non ci andrà neanche vicino, ma il suo impatto nella NBA è devastante. È uno dei giocatori più divertenti della lega, uno di quelli per il quale vale davvero pagare il prezzo del biglietto, anche a quei tempi alto, e molto. Guardare per credere.
Parallelamente alla sfida a quattro metri dal suolo tra MJ e Dominique, in uno degli stati laboriosi d’America si lavora sodo. A Canton, Massachussets, Paul Lithfield (Head of Content della Reebok) e la Design Continuum (leader nel settore della tecnologia industriale) collaborano per creare una sneaker perfetta, che potesse coniugare design e funzionalità. Ed indovinate un po’? Ci riescono. Nascono nel 1989 le Reebok Pump. Disegnate da Paul Brown, le Pump sono cosi tecnologicamente avanzate da rendere obsolete le Air Jordan in un battito di ciglio. Hanno una pompa ad aria nella linguetta, che sottoposta a pressione (delle mani) sprigiona aria che rende la scarpa un paradiso di comodità e sicurezza per il piede. È palese che la scarpa sia adatta a dei saltatori. Conosciamo mica qualcuno che giochi a basket, nel contempo diventato lo sport più giovane d’America, salti due metri da terra e faccia 30 punti ogni singola sera? Che domande: Dominique.
Comincia qui la meravigliosa storia che lega Dominique Willkins, “The Human Highlight Film” alla sneaker più rivoluzionaria della storia dello sport americano. Il diffondersi della cultura hip-hop di cui 3-4 dei giocatori NBA sono portatori sanissimi, e la predisposizione di Dom. agli spot televisivi (adora essere al centro dell’attenzione) fanno il resto. Il successo è dilagante, e nonostante il prezzo oggettivamente alto per gli anni ’90, le Reebok Pump Bringback (le prime messe in commercio) vanno letteralmente a ruba.
I numerosi “advertisements” (come li chiamano dall’altra parte dell’oceano) che lo vedono protagonista, battono quasi tutti sullo stesso punto. “Vuoi assomigliare a Dominique? Compra le sue scarpe”. “Vuoi volare in prima classe come Dominique e non in economy come Jordan? Compra le sue scarpe”. Un’ invasione del mercato totale, che inietta le Pump nella cultura cestistica (e di riflesso Americana) di tutti gli adolescenti anche, e soprattutto,quelli bianchi, che adesso possono ascoltare i Beastie Boys ed indossare la più fedele riproduzione della scarpa numero 46 di Wilkins, colui che galleggia in aria. La Reebok, Paul Brown e le Design Continuum avevano, inconsciamente o non, creato non solo una scarpa da gioco, ma uno status symbol. Progettato un’astronave, e fatta dipingere da Basquiat. Il bello a servizio dell’utile. Innovazione.
Le Reebok Pump compiono 25 anni e, per celebrare un quarto di secolo indubbiamente marchiato a fuoco da quella geniale invenzione, si rifanno il look e tornano sul mercato.
I 90s resteranno sempre i 90s, ma per chi allora era troppo piccolo, indossare ancora quelle sneakers è il miglior modo possibile per sentirsi come Dominique, l’uomo che volava, quello che, non fossimo stati a Chicago, avrebbe battuto niente poco di meno che Michael Jordan.