Foto di Gabriele Guarisco
Quando arriva il momento di cominciare un’intervista, pensi sempre a mantenere una linea. Ti dici “stavolta non mi lascio andare”, faccio la persona seria ed il tipo tecnico, sarò il nuovo Vincenzo Mollica. Poi le telefonate (Skype) partono, e la storia cambia.
Ti accorgi di parlare con qualcuno sanamente appassionato di musica, e si sa che le discussioni sulla musica difficilmente riescono a restare informali.
Io stavolta mi sono trovato a parlare con Lorenzo Nada, meglio conosciuto come Godblesscomputers, uno dei nomi di spicco, e che danno lustro alla moderna scena italiana a noi di DLSO tanto cara. Godblesscomputers ha appena ultimato il suo secondo album, “Veleno” che suona una meraviglia ed ha tanti significati nascosti.
Lorenzo vanta anche un primato. È stato il primo italiano a suonare con Omar Souleyman, l’enigmatico siriano prodotto da Four Tet. Non potevamo che partire da lì. Ti tocca la domanda su sabato sera, e su Omar Suoleyman. Che esibizione è stata, che razza di artista è? Perché anche dopo tutta l’esposizione mediatica che ha avuto, non riesco ad inquadrarlo.
Ti assicuro che anche averlo visto dal vivo non chiarisce un granché. In realtà è un personaggio abbastanza impenetrabile. C’è chiaramente tanto hype, ne han parlato in tanti, Four Tet gli ha prodotto il disco. Ma poi dal vivo è stato molto come ce l’aspettavamo, c’era lui e questo tastierista. L’effetto era molto karaoke. Sarà anche il suo background, lui salta fuori suonando musica tradizionale siriana ai matrimoni. Guarda io son stato due volte in Tunisia, ed a “la Medina” si sentiva di continuo musica così. Musicalmente è stato un live molto coerente, anche troppo. Pezzi tutti molti simili. A livello di impatto non ha certamente un gran carisma. È più il personaggio no, con questo turbante. La serata però è andata bene, la gente ballava, anche dopo durante il mio dj-set, quindi bene dai.
Rotto il ghiaccio, e notata la sua enorme disponibilità ed educazione, comincio allora a diventare antipatico. Lo scorso anno Jolly Mare partecipò al RBMA, e il suo diario ha accompagnato i miei sogni per molte notti. Ho immaginato che chiunque sogni un’esperienza del genere, ho anche notato le molte domande d’ammissione che circolavano su facebook da parte di molti artisti italiani bravi, molto bravi. Ed invece…
Proprio stamattina (giorno dell’interview) Capibara ha postato su Facebook, una foto del modulo di partecipazione al RBMA. Tu hai fatto richiesta, se puoi dircelo?
No, io non l’ho fatta. Non so neanche il perché, forse è una cosa che non mi interessa più di tanto. Francamente non c’ho proprio pensato, qualche amico me l’ha chiesto anche ma no, non ho partecipato.
Ciò che mi aveva incuriosito è stato uno schema, dove lui cercava di classificarsi un genere musicale, con un asse cartesiano a 4 quadranti dopo tra hip hop, sadness music, grovin’beats e musica elettronica, lui si poneva esattamente nel mezzo. Tu come definiresti la tua musica?
La mia musica credo stia in mezzo a quattro macro-generi dai quali io cerco di tirare fuori qualcosa e sono: l’HH, il dub jamaicano, la musica elettronica di matrice inglese e il soul. Diciamo che dall’HH prendo le radici, il mio background, dal dub sicuramente il basso, e la cultura della bass music che poi si è sviluppata in Inghilterra. Dall’elettronica l’utilizzo dei synth, di alcune ritmiche ritmiche, mentre dal soul prendo la profondità emotiva: utilizzo campioni vocali, acappelle che poi pitcho, stravolgo, metto effetti, che danno un tono di profondità nelle mie produzioni.
Tu hai studiato musica da piccolo, hai cioè una formazione musicale “scolastica” (passami il termine), o sei un autodidatta?
Ho studiato musica e solfeggio quand’ero ragazzino, ho studiato piano tre o 4 anni. Li ho appreso le basi della musica. Dopo poi ho seguito il mio percorso individualmente, anche cercando forzatamente di dimenticare quello che avevo imparato. La teoria mi fa comodo se devo utilizzare accordi, intonare giri di basso, ma di certo le intuizione più geniali arrivano da altre parti, quando hai la mente libera da schemi e convenzioni. Parlavo proprio di recente con questo ragazzo di Ravenna, che è un polistrumentista che viene dall’accademia e insegna anche musica, lui mi diceva che apprezza l’approccio musicale istintivo rispetto ad altro. Cioè, anche chi non ha mai studiato, e si mette a strimpellare musica, magari gli viene fuori quell’intuizione, che chi ha studiato roba di un certo tipo magari non riesce ad avere, anche forse per un tipo di forma mentis più definita. Non pensi alle regole teoriche, se fai una cosa e ti piace ok. Io condivido quest’approccio, perché sono un po’ stanco di sentire quest’eterno astio dei musicisti classici nei confronti dei producer di musica elettronica che magari mai hanno studiato e compongo robe assurde, io credo che se la musica è bella, le idee buone non ha importanza se l’hai studiata 10 anni in un conservatorio.
Sono sinceramente colpito. Raramente mi è capitato di riscontrare una tale precisione quando si parla di se stessi. E questa è una cosa che vale per tutti gli ambiti artistico-culturali. Invece GBC mi spiega con calma, con sicurezza quello che è, quello che fa, sinonimo di grande convinzione certamente, ma anche di una preparazione senza eguali.
Il tuo nome d’arte (Godblesscomputers) mi porta quasi obbligatoriamente a farti due domande. Perché, cioè che significato ha ? E tu da quale parte stai, nell’annosa (e noiosa) guerra tra analogico e digitale? Più specificamente, cosa usi per produrre? È una faccenda che un po’ mi stufa, ma chiamandoti così mi sento davvero di chiedertelo.
Innanzitutto il nome. Godblesscomputers, a dispetto di quello che si possa pensare, non vuole essere un elogio alla macchina, al digitale, al pc. Il nome ha una connotazione se vuoi anche un po’ metafisica. Mi sono immaginato un mondo governato dai computers in cui la spiritualità e la metafisica a cui noi ci affidiamo erano spostate sui pc invece che sugli essere viventi di questo ipotetico mondo. Proprio per questo, anche nella disputa tra analogico e digitale non mi pongo assolutamente a favore di uno rispetto all’altro. Io credo nella musica, se il risultato è buono, che esso sia prodotto da un sintetizzatore analogico o con un plug-in , per me non fa alcun tipo di differenza. L’importanza dell’analogico non sta tanto nel suono, come pure dicono in molti, perché per quello il digitale ha raggiunto livello di emulazione e pulizia uguale se non superiori, ma piuttosto nell’utilizzo, nella gratificazione dell’utilizzzo delle macchine, nel poter toccare le manopole, connettere i cavi. Quello è sempre molto affascinante, ma questo non influisce con le prestazioni.
L’ispirazione può derivata dal toccare con mano uno strumento analogico?
È un punto di vista che io condivido, ed in alcuni casi può essere vero, però dipende. Secondo me è importante il luogo in cui tu produci. L’ispirazione dipende, oltre che dal tuo stato mentale, dal luogo nel quale tu crei la tua musica. Anche davanti ad un monitor, ma in una stanza in cui ti trovi maledettamente a tuo agio, o che sia a casa tua sul divano, con le cuffie e il pc sulle ginocchia, l’importante è che ti senta a tuo agio. Io non riesco a fare musica quando intorno a me ho il disordine, il casino. Spesso per me è un processo molto legato all’ordine, quando faccio musica devo aver tutto ordinato (sia fisicamente che mentalmente) ed a portata di mano, per far si che quella determinata ispirazione, non passi mentre cerco di mettere le mani su quello che mi serve. Il mio studio a Bologna lo tengo con una cura maniacale.
Per produrre mischio molto analogico e digitale: sequencer, plug-in, compressori, emulatori cosi come sintetizzatori analogici, campionatori, pedalini con gli effetti, giradischi e mixer. Utilizzo poi molto cose tipo field-recording (registrazioni di campo), suoni come il rumore della plastica, del legno, del metallo. Uso queste registrazioni tagliandole ed inserendole nei beats, che so, ad esempio un rumore di plastica accartocciata sotto ad un clap o ad un rullante.
Ho visto fare una cosa del genere a Digi G’alessio.
L’ho visto anch’io in un video. Lui va in giro con l’SP 404, un campionatore semplice che utilizzo anch’io. Quei suoni magari li ha usati in altri progetti, penso a Clap Clap, perchè nelle sue robe recenti come Digi G’Alessio usa suoni più sintetici.
Con Digi abbiamo anche intrapreso un progetto insieme, abbiamo registrato un album, o forse un ep, in sostanza dei pezzi. Avevamo anche fondato un gruppo che si chiama “The Beatmakers Resistence”, ci scambiavamo beats, idee, lavorando a distanza ed abbiam tirato fuori bella roba. Ci siam sentiti qualche giorno fa per riprendere in mano i pezzi che per colpa di impegni vari avevamo momentaneamente accantonato, ma l’idea è quella di farli uscire prima o poi. E lì, si vede che molti pezzi erano suoni organici, legno, vecchi vinili fruscianti. Molto figo.
Il suo nuovo album “Veleno” uscirà a breve, abbiamo l’opportunità di mostrarvi il video teaser e l’audio di “Icry”, una delle tracce del disco. Avendo avuto l’occasione di ascoltarlo per intero, ho potuto constatare come le idee alla sua base siano chiarissime, e ben espresse da quanto segue…
A proposito dei tuoi lavori, ti volevo chiedere di parlarci un po’ di Veleno, che uscirà anche in vinile no?
Veleno è un disco che ho cominciato a registrare a Settembre/Ottobre 2013, diciamo che ho registrato diversi brani, numerose tracce nell’arco di due tre mesi. Dopodiché ho fatto una selezione di quei brani che avevano una loro coerenza interna se inseriti in un disco ed ho deciso di proporle a queste due etichette con cui io collaboro che sono White Forests e Fresh YO! che realizzeranno insieme Veleno, che come hai detto verrà stampato in vinile, in digitale e anche in una versione limited edition in cd serigrafati a mano. Il disco è, anche nel titolo, il rapporto tra uomo e la natura. Mi sono immaginato un uomo immerso in una giungle velenosa, che proprio in questa circostanza trova il modo di sopravvivere ed entrare in armonia con la natura, e trovare nel veleno l’antidoto.
È un viaggio, anche se mi piace lasciare libera l’interpretazione, anche del titolo. È un disco che rispecchia tutte le mie influenze, dall’HH all’elettronica, ma con tanti suoni organici, naturali.
È la sintesi di quello che sono io, oggi, nel 2014.
La grafica di Veleno invece? La trovo una figata pazzesca.
L’illustrazione del disco l’ha realizzata Jonathan Calugi, che cura tutte le uscite di Fresh Yo. Lui è un grafico bravissimo che lavora sia con grafiche vettoriali che con illustrazioni a mano ed ha un sito molto bello. Il suo progetto si chiama happyloverstown.
In realtà la grafica l’ha illustrata lui, mentre poi tutto il discorso dell’impaginazione e ella messa a punto grafica è ad opera di un altro ragazzo Luca Ritucci, che collabora con la White Forest. L’idea infatti, era un po quella ti trovare una sorta di equilibrio grafico tra le due label.
Una sorta di riassunto di Disco Raccontato, una disamina sincera, che può anche risultare di non semplice comprensione, ma esatta, pura.
Poi c’è una cosa che mi piace chiedere un po’ a tutti i giovani (senza offesa) produttori italiani. Si riesce in Italia a vivere di musica?
Si, o per lo meno è quello che sto cercando di fare in maniera abbastanza coerente, nel senso che sto provando a portare avanti il mio progetto. Spesso vivere di musica comporta scendere a compromessi, però io posso dire che parallelamente all’attività di producer, di comporre, fare live, sono prima di tutto un dj.
C’è un disco che ti ha cambiato la vita. Nel senso, qualcosa che dopo averlo ascoltato ti ha fatto dire “voglio fare anche io una cosa del genere”.
Francamente ce ne sono tantissimi, è sempre un percorso in completa evoluzione. Trovarne uno è difficile, ma ce ne sono stati molti che mi hanno portato alla consapevolezza di un modo di fare musica diversa. Le cose che mi hanno indirizzato di più sono state le prime sperimentazioni tra l’HH ed i suoi più elettronici, penso a Dj-Shadow in primis, Dj Krush, Prefuse 73 e tutta la scena delle Def Jux, che era un’etichetta storica americana dove c’era El-p. Perchè io son cresciuto ascoltando l’hh.
Ecco, era la prossima domanda (rido). Quindi è quello il tuo background?
Si, sicuramente. L’HH, e nello specifico tutta la scena bum-bap degli anni 90, i primi anni 00. Sono cresciuto ascoltando tutta la golden age, quindi ATCQ, De la soul, Beastie Boys, Nas, Mobb Deep, per poi spostarmi presto verso cose più agli albori. Le prime robe che si affacciavano a territori piu simili alla musica elettronica.
A proposito di HH, altra domanda che adoro fare i producer della scena italiana (come Machweo) e non (IAMNOBODI) è: hai mai pensato di produrre una strumentale per il rap di qualcuno?
Guarda, questa è una cosa che ho fatto fino a circa 3 anni fa. Ho suonato fino al 2010 con un gruppo HH che si chiamava “Il lato oscuro della costa” di Ravenna, e si lì facevo le produzioni per quattro MCs.
Dopo qualche anno, ultimamente sono tornato a seguire la scena italiana ma ne ascolto comunque poco.
C’è qualcosa che ascolti, che non rientra poi nelle tue produzioni? Qualcosa che ascolti per pure svago, ma che tende a non influenzarti?
Certamente ci sono cose molto disparate in quello che ascolto, se spulci tra i miei dischi trovi cose che pensi non possano mai rientrare in quello che faccio. Eppure tutto quello che ascolto riesce in qualche modo ad influenzarmi. Per dire tra i miei vinili, organizzati in maniera maniacale, c’è un sacco di musica tipo la samba, o afro-beat strani, prog anni 70, dai Pink Floyd in avanti e indietro, ma anche world music, roba indiana. Tra la tanta musica che ascolto c’è qualcosa da cui posso prendere dei campioni, oppure no, ma di certo tutto quello che mi piace mi influenza. Per farti un esempio, i Mars Volta, sono un gruppo che mi hanno influenzato molto. Se senti la loro musica, tra il punk-rock con escursioni sudamericane e prog. Da loro ho preso l’attitudine, il modo di strutturare, de-strutturare e ri-arrangiare i pezzi.
E ti posso dire che questa cosa si nota molto. Voglio dire, il fatto che attingi da diverse robe (anche molto diverse tra loro) fa si che il tuo suono sia molto particolare. Fosse anche per un singolo beat, un suono che va da un’altra parte rispetto a dove sta andando il disco in quel momento.
Mi fa estremamente piacere quello che mi dici. Perché quello che sto cercando io, è uno stile riconoscibile. Molti me lo dicono ed è una cosa essenziale per me.
È fondamentale per cercare di distanziarsi da tutto il resto. Non prendiamoci in giro, tutto quello che si poteva fare nella musica è forse già stato fatto, quindi tutto quello che si fa adesso è un cercare di ri-assemblare in maniera intelligente ed individuale le influenze della tua vita. Tutto rientra nella tua musica, i film che vedi, le persone che incontri, i libri che leggi, i discorsi che fai, momenti che ti hanno cambiato. Se siamo individui unici al mondo, abbiamo anche la possibilità di mettere nella nostra musica qualcosa di unico, percorsi fatti di emotività e di cose di un certo tipo che è unico. Io credo molto in questo.
Ancora una volta: trovare un modo di definire l’ispirazione non è semplice, conoscersi cosi bene non è facile. Alla fine di una lunga chiacchierata, abbiamo trovato mille spunti di discussione che non possono essere tutti inseriti qui per ovvie ragioni editoriali.
A scuola odiavo la biologia, come tutti (tranne quelli che poi la prendono all’università). Ricordo solo di Darwin, e della teoria dell’evoluzione. In soldoni, solo chi si adatta all’ambiente, chi impara a riconoscerlo, sopravvive. E si distingue. Godblesscomputers è uno di questi.
Ed invece, di roba più “sconosciuta” c’è qualcosa che vorresti segnalarci?
C’è un artista che mi piace moltissimo di musica, un po’ jamesblakiana, che si chiama Ifan Dafydd. Ed anche Guerre e Submerse.
Io li ho ascoltati.C’è da giurarci che prima o poi li troveremo, campionati e distorti, in qualche suo prossimo lavoro.