Esistono due tipologie di ottimi beats: 1) quelli su cui è facilissimo rappare. Faccio un esempio: la strumentale di Keep It Thoro, uno di quei beat su cui anche io, con un paio di settimane di allenamento, riuscirei a fare bella figura. 2) Quelli su cui è difficilissimo rappare, per le ragioni più varie.
Madlib è sempre riuscito a fare sia ottimi beats facili, che ottimi beat difficili; e questo non è cosa da tutti, è una sfumatura sottile. Le prime cose coi Lootpack, di fatto, erano fondamentalmente boom bap, e anche le cose sul disco con J Dilla erano piuttosto canoniche, idem le produzioni come Quasimoto. Poi, di contro, c’è tutto il discorso Madvillainy – un album che col passare degli anni sta invecchiando benissimo –, su cui Mf Doom è riuscito a tirare fuori strofe grandiose su beat quantomeno bizzarri, che in pochi sarebbero riusciti a domare con cotanta abilità (a me fa impazzire Papermill, un brano tratto da una vecchia compila Stones Throw, una roba tutta basata su un loop di rock tedesco, con la voce crucca sopra, assurdo per davvero).
Pinata è un po’ la chiusura del cerchio, perché dentro ci sono sia beat facili che beat difficili, ed è proprio su quelli difficili che Freddie Gibbs è riuscito a dare il meglio di sé, superando anche i suoi stessi limiti, e dimostrando al mondo di essere probabilmente uno degli mc più forti del momento, a tutti i livelli. Questo, ascoltando la versione ufficiale, risalta meno – sto parlando della difficoltà dei beats –, perché Gibbs è sì bravissimo ma l’effetto dissimulazione è dietro l’angolo, non ci si rende conto della difficoltà, un po’ come vedere Messi che fa la solita finta che sembra facilissima ma razionalmente sappiamo che non lo è.
Ciò appare invece molto più evidente ascoltando la versione strumentale dell’album, uscita da qualche settimana. I beats infatti sono la solita cremeria funk-soul che già conoscevamo, e bene, ma senza il rap sopra ci si accorge meglio di quanto il gioco di Madlib sia tutto basato su una sottotrama di slittamenti, trabocchetti e swingate varie; robe che insomma alzano il coefficiente di difficoltà.
Freddie Gibbs – classe 1982, nato in Indiana, ma di stanza a Los Angeles dal 2006 – dal canto suo, è davvero un grande rinnovatore della scuola West Coast, si sentono gli echi di Scarface, di Tupac. Non è tanto il cosa dice – sono i soliti argomenti del gangsta-rap: quindi fumare, scopare, vita di strada, etc. – ma è il come lo dice. È il fatto che quello che dice, come lo dice, ti porta lì vicino, a migliaia di kilometri di distanza, a vivere cinematicamente quelle situazioni. Gibbs ci riesce inserendo piccoli dettagli lirici che hanno un effetto di realismo dirompente, con la voce così distaccata e fredda eppure calda e avvolgente, con un flow mutuato dai grandi della West eppure personale ed efficacissimo. La cosa che poi colpisce di più è il modo in cui Freddie è riuscito ad adattarsi ad uno stile tutto sommato abbastanza differente da quello che ci si potrebbe aspettare per una produzione gangsta. È una specie alchimia probabilmente irripetibile tra uno dei beatmaker più importanti di sempre e un giovane e fortissimo rapper di strada, che sono riusciti – cosa tutt’altro che scontata – a rendere il tutto più della somma delle parti (che già erano parti non da poco).
Un paio di mesi fa, sul mio profilo Facebook, si discuteva delle tracce migliori e ognuno aveva le sue preferite. La scelta è davvero difficile. Io, ancora oggi, dico Deeper e Thuggin, perché sono il perfetto esempio di quella che è la mia visione del disco: cioè gangsta-soul, una roba a metà tra i lati più crudi del rap, e le vette più spirituali della black music (that cut a nigga deep, per citare il refrain della stessa Deeper). Ma potrei citare anche Shame o Real o Uno, o altre ancora. E non mi dilungo nemmeno a parlarvi dei featuring – tanti, e di buon livello (c’è anche Scarface) – o i dettagli sulla travagliata produzione dell’album. È un capolavoro, è il miglior disco hip hop del 2014 ed è anche uno dei migliori usciti nel decennio, quando il rap funziona su questi livelli ha una potenza mimetico-immaginativa ancora maledettamente efficace, e quindi non c’è altro da aggiungere: rimettiamolo in play, è l’unica cosa da fare.
Filippo Papetti