Terzo episodio di CHITARRONI ovvero quella che si spera sarà d’ora in poi una rubrica con cadenza più regolare, apposta per venire incontro alle esigenze di un pubblico così assetato di musica RUOCK. Andiamo.
Joyce Manor – Never Hungover Again
È molto difficile fare un album perfetto, se non siete i Joyce Manor. Se invece siete i Joyce Manor, siete un un gruppo californiano, siete quattro amici e siete la mia personale definizione di pop-punk. Una definizione di cui i JM si sono appropriati dalla prima volta in cui ho ascoltato il loro debutto, scalzando qualsiasi rivale più o meno diretto grazie ad un semplice fatto: hanno speso il loro tempo raffinando e levigando la loro formula originale, ma soprattutto togliendo quello che non è necessario. Fare una cosa e farla da dio ovvero l’esatto opposto di ciò che descrive la mia persona. Never Hungover Again dura (come è solito per i nostri) poco, 19 minuti. 10 pezzi, 19 minuti. 3 dischi uno migliore dell’altro. Primo disco su Epitaph, primo disco registrato in uno studio che si possa chiamare studio. Stavolta hanno deciso di dire proprio vaffanculo al lo-fi scegliendo per il missaggio tale Tony Hoffer, produttore di roba mainstream, specializzato in gruppi brit con un tot di catch tipo Supergrass, Kooks ecc…. Il risultato è un suono che dal classico punk-hc dei primi dischi si è fatto influenzare sempre più dal jangle pop e da tutto quello che è rappresentato da Moz e gli Smiths. La bravura dei quattro sta però proprio nel non accomodarsi sopra un unico genere, magari con il solo scopo di essere più orecchiabili e più vendibili. Cioè chiariamoci, il risultato è quello—questo disco infatti può essere apprezzato anche da chi è fan di roba indie rock (forse anche pop) e che non proviene per forza da un passato emo-punk-hc—ma ci arriva in maniera pura e non costruita. Insomma ai JM frega poco di essere probabilmente ad un passo da mainstream ed è proprio quello che li rende fichi. In 20 minuti i quattro non stanno fermi un secondo, facendo visita ad Alkaline Trio, Blink-182 (soprattutto nei cori del ritornello di Heart Shaped Tattoo), ai Green Day, cadendo ogni tanto così bene nei cliché pop-punk che non puoi che sorridere e dire “vabbè ma è troppo perfetto echeccazzo”. Poi però ti accorgi quanto sia facile sentire reminiscenze smithsiane, complice la voce del cantante/chitarrista solista Barry Johnson che non si limita però a copiare Morrisey, ricordandosi di possedere spesso e volentieri una vena hardcore, che metta alla prova nel migliore dei modi in Catalina Fight Song, uno dei pezzi più incazzati (e migliori) del disco. Falling In Love Again è IL singolo, così malinconico, con quel basso scuro e riverberato che sembra vomitare i Cure da ogni corda e quell’atmosfera da fine estate che potrebbe tranquillamente entrare nell’ultimo disco dei Beach House. At The End of the Summer parte come uno dei pezzi più emo, con quelle chitarrine twinkle che tanto ci piacciono, e poi esplode in un ritornello che urla “OH RAGA CI PIACCIONO GLI WEEZER” dall’inizio alla fine. Discone dell’anno insieme agli Hotelier.
Prawn – Kingfisher
Schiaccio play, parte Scud Running e subito devo fare un double check per essere sicuro di non aver messo su un inedito dei Mogwai. Invece è proprio Kingfisher, uscito per Topshelf Records, ultimo disco dei Prawn, band di Ridgewood NJ che ha 2 LP all’attivo, e un paio di EP/split. Ve ne avevo già parlato? Non mi ricordo, fatto sta che è una di quelle band a cui tengo un un bel po’ perché li seguo dal primo EP, Ships, dove mi avevano già causato frequenti ear-boners. I Prawn sono una di quelle band che non si fossero trovati con i chitarroni fra le mani sarebbero tranquillamente potuti essere una mini orchestra. Basta proseguire con l’ascolto di Scud Running per capire a cosa mi sto riferendo, ovvero alla loro incredibile capacità di costruire un pezzo progressivamente, livello per livello, arricchendo con calma e costruendo quello che è quasi sempre un crescendo epico, spesso condito dai fiati (mai invasivi o inutili). Quella dei Prawn è proprio musica in movimento, costruzione meccanica di piccoli pezzetti che trovano un senso grazie al fondamentale elemento dell’emotività che perpetra per tutta la durata del disco. Kingfisher è sicuramente un’evoluzione rispetto ai dischi precedente, è un disco più maturo, più strutturato, più ragionato. Il gruppo ha preso sempre più coscienza dei suoi (enormi) mezzi e riesce a proporci tutto quello che c’è di bello nel post rock senza la noia che inevitabilmente ci provoca il post-rock. Come ci riesce? Estrapolando le armonie chiave e cercando di costruirci sopra, piuttosto che continuare a riproporle identiche dall’inizio alla fine. Un grande contributo a rendere poco monotono il disco è dato dal cantante/chitarrista Tony Clark, che ha progressivamente deciso di cantare sempre di più (a pensarci bene Ships è un disco praticamente strumentale), spostando così l’asse da “pezzi strumentali di nicchia” a “pezzi non dico radiofonici ma ecco”. Questo insieme di tecnica, suoni precisi e cuore mi fa capire che forse ci troviamo davanti ad una delle band che possono provare a prendere il posto dei defunti–SIGH–Crash Of Rhinos. La nuova faccia del post-rock.
Beach Slang – Who Would Ever Want Anything So Broken?
Il debutto dei Beach Slang è una delle cose migliori degli ultimi mesi. I tre componenti sono dei semi-veterani della scena punk (ahimè, non li conoscevo) e amici, si sente. Il disco è ovviamente corto, ma iper-ispirato. Tanta rabbia positiva, mischiata a nostalgia. L’emo 90’s che si fonde con il rock alternativo. Nel brano più significativo del disco—Get Lost—c’è tanto Springsteen quanti Jawbreaker. Un debutto che ha spaccato alquanto anche su testate americane di un certo calibro e che ha portato il gruppo a farsi ingaggiare subito dalla Tiny Engines (casa di Hotelier, Tigers Jaw e altri bei gruppetti) ancor prima di aver fatto il primo live. Notizia fresca fresca: è in arrivo per il prossimo mese Cheap Thrills On A Dead End Street, un nuovo EP fresco fresco di etichetta nuova (dato che il materiale di Who Would… è del 2013). Evitate l’ultimo dei Gaslight Anthem e buttatevi su questo trio.
Dags! – S/T
Qui devo fare un mea culpa. Il disco dei Dags! (debutto, su To Lose La Track) ce l’avevo nel cassettino “da ascoltare” da tipo un mese, ma non mi ci sono mai messo, un po’ perché ho i periodi in cui non ho voglia di ascoltare tipo NIENTE (succede raramente ma succede) un po’ perché credevo di ritrovarmi con essenzialmente un side project dei Verme. Lo credevo solo perché Viole (la loro ex bassista) fa parte dell’organico di questa band di Milano Est (la mia zona, cioè, quanto sono imperdonabile?), insieme ad altra bella gente della scena emo/hc locale. Invece il gruppo in questione c’entra ben poco con i Verme. Non che i Verme non mi piacciano eh, anzi, è solo che c’è ben poco da ribadire in quel genere. I Dags! invece decidono di cantare in inglese e di conseguenza di suonare meno italici, invertendo una tendenza che i colleghi emo-punk adottano ormai da qualche anno, diciamo dal giorno in cui è uscito Sfortuna dei FBYC. I Dags! suonano un sacco 90’s, un sacco Mineral e sono quindi paradossalmente molto più vicini ai FBYC di Cultivation OF Ease, con l’aggiunta però di una sezione di fiati che rende tutto più particolare e fresco. Un altro gran debutto da mettere subito in free download.
Trophy Scars – Holy Vacants
Blues e post-hardcore. Sul primo momento sembra un contrasto azzardato, ma appena sentirete il crescendo finale di Qeres dei Trophy Scars, tutto vi sembrerà chiaro e lampante, come se l’aveste sempre percepito che, in fondo, blues e post hardcore sono costituiti della stessa rabbia agrodolce. I Trophy Scars sono un gruppo di Morristown, NJ e hanno all’attivo 4 dischi full-lenght, quindi stiamo parlando di un gruppo non proprio nato ieri. Io devo ammettere con Holy Vacants (uscito per Monotreme Records) di essere al mio primo ascolto, pur avendo sentito il nome in giro più volte. Ne sono rimasto folgorato. Un assaggio di blues e post-hardcore l’avevo già avuta con i Pile e mi aveva fatto impazzire. Qui l’asse è notevolmente più spostata sul blues, ma la matrice hardcore è netta e percepibile per tutto il disco. Incredibilmente mi sono ritrovato ad apprezzare cori gospel, assoli di chitarra (giuro!) e ritmi blues come se fossero la roba più fresca e nuova del mondo. La voce di Jerry Jones è una di quelle cose davvero rare da dimenticare. Grezza e ruvida, si porta dietro tutte le ferite accumulate nel corso del tempo e le resuscita in ogni pezzo di Holy Vacants. Il finale di Qeres è davvero una delle cose più belle partorite dalla musica RUOCK negli ultimi anni: un crescendo epico blues con la voce grattatissima di Jones circondata di cori gospel e ritmo terzinato, che di botto diventa quattro-quarti mentre la voce di Jones si trasforma i scream, sempre in sepolta in mezzo al turbine di cori aulici. Disco rock degli ultimi anni A MANI BASSE PROPRIO.