«PS: fumo una sigaretta fuori dai magazzini e ho di fianco Sofia degli iori’s eyes…»
Recitava così un sms che ricevetti la sera del 21 Aprile 2011 sul mio cellulare con fotocamera da 1.3 megapixel. Io ero nel pieno di uno di quei riti che compiono i giovani di notte nella provincia più scura, mentre lo spirito a me affine del mittente del messaggio aveva appena lasciato che le sue orecchie si saziassero della voce di James Blake. Poco prima, lo stesso spirito affine mi aveva regalato una telefonata di 4 minuti in cui nessuno parlò, ma lasciammo solo che Limit To Your Love scorresse, disturbata dal filtro del cellulare, dal palco dei Magazzini Generali di Milano all’angolo tra due vicoli giallognoli in cui mi ero riparato per godere del momento.
Risulta molto più limpida la lettura dell’album di debutto degli Iori’s Eyes, usando come chiave d’accesso l’immagine di Sofia che fuma una sigaretta dopo essere stata travolta dall’intensità di Blake , rimuginando sull’espressività delle tinte cupe mentre lungo le dita ancora le corrono profondi gli echi. In un disco, Double Soul, che pare essere nato come nasce un’opera surrealista sotto l’influsso della pura ispirazione fulminea, sotto la guida dell’attività onirica e per semplice volere dell’inconscio, l’influenza di James Blake viene spalmata in modo uniforme come primo strato di una sofisticata sovrapposizione quasi fosse la preliminare crosta opaca e cupa che Caravaggio stendeva sulla tela prima di ricavare da essa le forme di luce sulla pelle dei suoi protagonisti.
Ciò che ne viene fuori è materia evanescente, nebbiosa, impercettibile, come ogni lavoro degli Iori’s Eyes è. Sempre sospesa ad un filo di nylon grazie al quale pare fluttui, la musica del duo milanese conserva in realtà tutti i toni grigi della periferia industriale, dei fumi pesanti, oniricità e plastica come le nuvole cinematografiche del film Voyage Dans La Lune, soffici ed eteree, ma pur sempre artefatte. Scenari monotonali, lunari per l’aridità che comunicano: gli appartamenti da riscaldare coi termosifoni, le grandi città, quelle poco interessate all’individuo, quelle dei rumori più sterili, quelle che con la propria incomunicabilità esprimono forse la poeticità più struggente; poche immagini evocative ed è subito 90’s. Mi riferisco a quei 90’s che pare siano esistiti solo a Bristol, nell’Inghilterra più autistica, nell’Inghilterra dei Massive Attack, dei Portishead, quei luoghi che in modo poco velato sono la culla da cui provengono le melodie di quest’album, melanconiche e accorate. Un flusso introspettivo che nasce perché ne ha l’esigenza, perché ce n’è bisogno, scorre senza soluzione di controllo e trova freno solo nelle tremule voci di Clod e Sofia, in un lasso di tempo che pare una confessione sul proprio cuscino, bisbigliata, appena sussurrata, in un silenzio notturno, voci così sottili che quasi la parola è sopraffatta dal gioco rumoroso creato dalla saliva sulle labbra appena in movimento.
D’altronde d’intimità ne hanno sempre vantata a tonnellate, anche nei precedenti ep così poco pretenziosi, così sciatti e per questo così terribilmente attraenti, confezionati in un dream pop tanto generico da essere unico e forse irripetibile; così come nei live hanno sempre inscenato una malinconica rappresentazione in stile teatro sperimentale de “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino, disintossicati, disincatati e American Apparelizzati”, con la delicatezza di chi ha scelto di non imporre altro che il proprio non voler imporsi. La crescita fino a Double Soul è apparsa quindi naturale e non forzata, ma sostenuta dal gioco dei cartoncini con le macchie d’inchiostro tramite cui Clod e Sofia hanno costruito il discorso dei rimandi, dei “mi ricorda…”, e dietro di questi, nelle vesti di psicologi, Federico Dragogna (Ministri) e Giovanni Ferliga (Aucan) hanno riordinato il timido disordine onirico stendendo su esso un lieve strato di battute downtempo e trip hop, dando così forma a quelle suggestioni metafisiche un po’ De Chirico, un po’ The Weeknd che rendono l’intero LP un’escursione sensoriale a tutto sesto.
A conclusione dell’ascolto mi ritrovo quindi non catapultato in un torrido silenzio, ma ancora rapito dall’immaginazione, in un continuum temporale, lasciando che l’esperienza vada a svanire in fade away col rumore dei piedi in corsa sulla moquette di un pianerottolo della Trellick Tower di Londra, come i protagonisti dei videoclip 90’s di Blur, The Verve e Depeche Mode, mentre si allontanano, anzi fuggono, portando via con sé tutte le suggestioni che questo disco mi ha suggerito.