Chiunque in Italia dai primi ‘anni 90 ad oggi abbia nutrito un interesse anche solo superficiale nei confronti della musica – definiamola per comodità – “di qualità”, avrà senz’altro seguito prima o poi, in una delle sue diverse esperienze, Alessio Bertallot. Voce storica di B Side sulle frequenze di Radio Deejay, poi conduttore su Radio2 di RaiTunes, conduttore televisivo su MTV e più di recente su Sky Arte, DJ, cantante.
Il suo progetto Casa Bertallot è la sua creatura più recente e probabilmente quella più ambiziosa. Fondata nel settembre del 2013, Casa Bertallot (www.bertallot.com il link per l’ascolto) è una web radio on line 24 ore su 24 che mantiene sempre grazie alla rete anche un filo diretto con i propri ascoltatori, è un format cross-mediale, per usare le parole del suo iniziatore, del tutto innovativo.
In questa nostra intervista abbiamo cercato di sapere di più sulle circostanze che lo hanno portato ad intraprendere questa nuova avventura, per certi versi senza precedenti in Italia, a seguito del termine della sua collaborazione con la RAI, sul crowdfunding che ha dato vita al progetto e sulla attività che in poco più di un anno l’ha portata ad avere giornalmente intorno ai trentamila affezionati utenti. Ed inevitabilmente abbiamo parlato della musica uscita nel 2014, di cultura e politica in Italia e di tanto altro ancora, compreso il windsurf. A voi la dettagliata trascrizione della lunga chiacchierata a ruota libera, mettetevi comodi ed immaginate di stare ad ascoltare Alessio alla radio:
Preparandomi per questa intervista ho notato di come, in interviste precedenti, ti è stato spesso chiesto di esprimerti riguardo alla cattiva situazione nella quale versa la musica e la cultura in Italia, di dare consigli agli esordienti che hanno difficoltà nel cercare di emergere etc. etc. Quasi tu fossi un Bono Vox che viene fatto carico dei problemi del mondo ed al quale viene chiesta la soluzione di tutto. Tu invece dovresti essere messo in condizione di fare il tuo lavoro, di divulgare, di far ballare la gente… Non trovi che sia un brutto segno questo?
Diciamo che per fortuna è un po’ una prerogativa dei dj quello di essere divulgatori, lo dico con infinita umiltà, di una certa cultura, per lo meno quella musicale. Diventa un po’ un problema quando un comico diventa un politico in Italia. E questo non lo dico io, lo dice Grillo stesso. Vuol dire che istituzionalmente parlando è stato lasciato un vuoto che è stato riempito in maniera selvaggia da quello che succedeva senza che ci fosse una visione, un pensiero verso il futuro. È questo che manca all’Italia. Manca in politica e poi a cadere proporzionalmente manca in tutte le altre cose. Questo è un paese che di fatto non ha un governo. Quello che è stato fintamente un governo, all’inizio era pilotato evidentemente dalle grandi ragioni degli stati in Europa e soprattutto dell’America che ha mantenuto con la Democrazia Cristiana una sua visione di ciò che doveva essere la staticità del nostro Paese; poi, quando il discorso è venuto meno con il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, l’italia non è riuscita a prendere le redini del proprio destino. La cultura viene solo per ultima ma ci sono cose infinitamente peggiori.
Secondo te quanto male hanno fatto venti anni e passa di “berlusconismo” in Italia?
Hanno fatto molto male secondo me. Gli italiani, dal momento del boom economico e quindi anche da quando Berlusconi ha cominciato a fondare il suo impero fino ad oggi, sono diventati “ricchi” forse, ma non sono diventati dei signori. Fare i soldi ed essere tra i paesi più ricchi e sviluppati del mondo ha come conseguenza quella di avere delle responsabilità. Le responsabilità dei politici te le puoi immaginare… Ma parliamo in questo caso dei dj: non capiscono che nel momento in cui riesci a parlare ad una platea nazionale, hai anche una responsabilità civile. Devi essere onesto. Devi porti il problema di cercare di migliorare la vita degli altri. Non di approfittare del mezzo per acquistare più successo. Almeno io l’ho sempre vista così. E questa forse è la cosa che è passata attraverso i cuori di chi mi ha ascoltato per anni e ha fatto scatenare tanta solidarietà. Nella mia beata ingenuità ho sempre pensato che essere a Radio Deejay o essere alla RAI, ad MTV o a San Remo fosse un occasione da sfruttare nel senso dell’onestà e della possibilità di portare un gesto, un contenuto che potesse essere utile per tutti. Così come, quando io voto, non lo faccio pensando a quello che è il mio interesse, ma pensando a quello che potrebbe essere l’interesse di tutti. In questo paese sento interviste a politici che affermano il contrario. L’andare a votare o parteggiare per una scena politica o un’altra è dichiaratamente fatto in funzione dei propri interessi e lo dichiarano alla televisione e alla radio. È scandaloso, ci vorrebbe Gesù con la frusta come nel tempio. Stiamo perdendo il lume della ragione.
Per tornare alla questione RAI. Il mio programma non è stato cancellato. Quello che ho già dichiarato anche al “Sole 24 Ore” è questo. Io ho avuto conferma a Maggio che il programma avrebbe avuto una quarta stagione. Essendo io una persona seria dal punto di vista professionale ho rifiutato altri impegni di lavoro in funzione della ripresa del programma a Settembre. Loro sono sempre in ritardo con i contratti per cui nessuno di noi – questa cosa non è capitata solo a me – si è allarmato quando nell’imminenza della ripresa della stagione non c’erano ancora i contratti. Sono saltati fuori quattro giorni prima dell’inizio del palinsesto ed erano stati unilateralmente cambiati. A casa mia si chiama “ricatto” ed io l’ho rifiutato. Il programma è stato chiuso perché mi sono opposto a condizioni che non errano accettabili e tardive. Ho pensato quindi che fosse meglio fare la radio da casa mia piuttosto che lavorare con gente che agisce in questo modo.
Non è che alla RAI ha spaventato l’ambizione del tuo progetto?
Sarebbe meglio se fosse stato così. La mia sensazione è che la disattenzione e la poca deontologia professionale siano una sciatta abitudine e non che ci sia un progetto di zittire delle voci pseudo-culturali. È molto più terra-terra la cosa, non c’è nessuna volontà. È diverso, è peggio. Non c’è un progetto, non c’è una visione, non c’è attenzione, non c’è una consapevolezza, non dico per quello che riguarda il mio lavoro, ma verso tutti quelli che fanno degli sforzi culturali di qualsiasi genere. Non c’è il senso del dovere di cercare di ricostruire culturalmente questo paese.
Forse c’è la volontà di non farlo.
Non credo, c’è proprio una sciatteria generalizzata. Per fare delle cose diverse devi avere il coraggio di buttare il cuore oltre l’ostacolo, di rischiare. Vale per un povero dj come me come per i direttori. È una questione di coraggio, di ambizione, di grandezza. Manca la grandezza. C’è solo la mediocrità, anzi una mediocrazia. La tirannia della mediocrità, dove va bene tutto.
Come lo riassumi questo anno di Casa Bertallot?
Tutto si riassume nella parola “casa”. La casa è un luogo fisico che racchiude un luogo dello spirito. Riportare la radio in una situazione del genere è fare un reset e rifondarla con delle prerogative di intimità, di aggancio con le radici, di spontaneità. Questo è quello che mi porto dietro come il meglio dell´esperienza di questo primo anno di trasmissioni. Capire che ce la posso fare da solo, senza l’aiuto di grandi strutture ma con l’aiuto di chi mi segue. L’avvento della rete ha portato cambiamenti molto profondi, da un lato la possibilità di essere autonomi nella distribuzione, quello di Casa Bertallot è un progetto di indipendenza nei contenuti, quella comunque l’ho sempre avuta, non è una grossa novità, ma anche di indipendenza nel modello distributivo. Ed è li che si gioca il grande impegno, cioè il far si che questa cosa produca anche abbastanza soldi per mantenerla in piedi. Il primo cambiamento radicale che la rete ha consentito è stato, esattamente come un blog, quello di essere potenzialmente al centro del mondo. Questa è una delle cose fondamentali. L’altra è il rifondare una visione editoriale. C’è l´indipendenza, c’è la possibilità di decidere da soli, di non dovere chiedere spazi e permessi. È per questo che diventa importante dichiararlo con una bandiera, quella della casa. Sono a casa mia, ti apro la casa, ti apro il cuore, io sono quello che suono. Nel bene e nel male questo ha un valore, un valore di reset, di ricostruzione. Poi mi sono accorto che questa sensazione passa molto. Per farti un esempio: i musicisti che vengono qui a suonare forse sono più di quelli che venivano quando ero alla RAI. I musicisti vengono volentieri a suonare perché sanno che c’è una condizione giusta. Ieri c’era Ivan Segreto a presentare il suo nuovo disco, sono venuti i Lamb, è venuto Bollani. Questo mi fa veramente pensare che la gente, sia quella che ascolta sia quella che opera musicalmente parlando, sia ancora sana. Lo dicevi tu all’inizio quando hai fatto la premessa parlando della solidarietà che c’è stata nei confronti del progetto Casa Bertallot con il crowdfunding. La mia sensazione è che questo paese sia molto più sano di quello che pensiamo, che la gente sia molto più intraprendente ma ci hanno isolati. Per cui crei un centro come quello che può essere un buon blog che parla della musica giusta o una radio indipendente e qualcuno se ne accorge e magari ci si aggrega intorno.
Dal punto di vista più puramente musicale, per entrare più nello specifico…ti do una sensazione generale. Ho la sensazione che ci sia una vaga ripresa di un certo entusiasmo in Italia. Sia dal punto di vista dei locali che dal punto di vista dei musicisti soprattutto dell’elettronica. Questa cosa non mi sorprende, è successo almeno due altre volte nella mia lunga vita di avere notato che nei momenti più cupi c’è una ripresa, e non si capisce perché.
È vero! L’ho notato anche io. L’esempio tipico è quello del punk.
Il punk è stato il primo che ho vissuto poi c’è stato il momento del rap in italiano verso l’inizio degli anni ’90 e adesso mi sembra stia succedendo la stessa cosa. Quello che non sento ancora è la presenza di una vera e propria scena. Forse allora era più facile riconoscere questi movimenti perché si concentravano tutti in alcuni luoghi fisici. Adesso è tutto più disseminato e polverizzato. Però manca sempre una certa originalità alle produzioni italiane secondo me, bisognerebbe trovare una dimensione che le giustifichi in questo posto qua, e non fare bene il compitino che fanno fuori.
E l’hip hop, italiano e no, come lo vedi nel 2014?
È innegabile che ci sia un momento di grande vivacità per quel che riguarda l’hip hop italiano. Mi piacciono molto i rappers napoletani, trovo che la lingua napoletana sia più efficace da quel punto di vista e poi perché c’è molta attività lì, quindi ci sono più occasioni di interesse per me, sia nelle cose un po’ semplici che in quelle più elaborate. C’è una “cazzimma”, per dirlo alla napoletana, interessante. Meno acida dello stile milanese, più funk, mi piace di più. E poi ci sono degli outsiders in Italia che mi piacciono, non facilmente classificabili. C’è Murubutu con la sua versione letteraria del rap, cè Millelemmi che fa degli esperimenti che esulano dai soliti beats. Da quel lato lì c’è una attività interessante. Contemporaneamente c’è il rischio che diventi molto pop, ci sono dei fenomeni che sono assolutamente pop che inficiano il valore della cosa.
Il prezzo da pagare forse?
La dubstep si è compromessa così. Quando è iniziato era veramente estremista. Come mi dicevano i produttori a Londra quando a cercare i dischi: “Queste cose le ballano solo i neri”. Ti parlo del 2001 quando c’era ancora la 2 step che impazzava. Era già iniziata una reazione che poi si è compressa con i fenomeni più commerciali che ora è diventata musica per ragazzini, per cui ci si deve spostare da un’altra parte.
E il rap più popolare, quello dei vari Jay-Z, dei vari Kanye West, come lo vedi?
Non mi piacciono tanto quelle cose, saturano in fretta. Sento un elemento troppo curato, laccato, prevedibile, troppo cliché. Mi annoia abbastanza in fretta, non sento più la spontaneità, sia nella forma che nel contenuto. Mi sembra che per certe cose sia diventato il nuovo pop, l’hip hop. Nel bene e nel bene. Forse aveva ragione DJ Shadow nel 94 quando chiedeva “Why hip hop sucks? It’s the money…”.
Nel ruolo di dj da club su cosa ti orienti al momento?
Ultimamente mi piace molto questo ritorno di certe ispirazioni anni 90. L’avrai notato anche tu, c’è un notevole ritorno della jungle che è stato il momento più ispirato ed interessante prima che diventasse drum&bass, si formalizzasse un po’ troppo e diventasse manieristica. Progetti come Special Request ed Addison Groove, e poi ci sono anche delle ispirazioni nuove che mi intrigano anche se non ho capito se faranno grande strada, quello che chiamano juke ed altri chiamano footwork. È intrigante, lo sento come un processo di trasformazione di un linguaggio che c’era prima, nella versione americana è molto vicino alla ghetto-tech che si faceva a Detroit, molto ignorante, quella di DJ Godfather, adesso ha preso una strada più raffinata e non mi dispiace, la sento come un movimento culturale, poi essendoci anche dei balli… mi fa pensare che sia qualcosa di più profondo dell avvento di un nuovo genere, tecnicamente parlando. Poi mi piace suonare quelle cose con la cassa in quattro che mi ricordano un po’ certe estetiche dei primi anni ’90, un vaga sensazione di jazz, questo piano che torna ritmicamente, che in quegli anni lì non è che mi entusiasmasse molto. Mi interessava molto di più il rap. Adesso invece sentire un po nella musica house il ritorno di forme vagamente più strutturate dal punto di vista del solito loop che si ripete…
Generalmente parlando trovo che ci siano anche tante cose stimolanti in quel crossover tra jazz e cultura hip-hop. Robert Glasper per esempio. Personalmente trovo poi molto interessante il ritorno di certe cose acustiche, da Nick Mulvey a James Tillman. Taylor McFerrin, che è stato anche qui da me poco tempo fa. Altre cose che mi sono piaciute più in generale: Sohn, Laura Doggett, prodotta dallo stesso Sohn se ricordo bene. Mai poi anche Moderat, SBTRKT che ha fatto un disco interessante, fuori dagli schemi. Io credo soprattutto nelle proprietà del crossover, della contaminazione fra i generi. In questo senso ho trovato molto interessante il disco di Bugge Wesseltoft con Henrik Schwarz. È misurato, ha grazia quel disco. Sul fronte del jazz imbastardito gli Hiatus Kaiyote, australiani. Poi fra gli italiani, c´è Cosmo. Vedo che si propone in una forma molto moderna. È stato già ospite da me, one man-band un po’ come Taylor McFerrin. È interessante quello che fa, questo annegare nell’elettronica questa sensazione della canzone italiana. Insomma, c’è vita.
Direi di chiudere la nostra chiacchierata in maniera classica. I tuoi progetti per il futuro, anche al di là di quel che concerne direttamente Casa Bertallot.
Sono anni che accumulo appunti che non finisco mai di produrre perché vengo sempre travolto da altre cose da fare. Ho una serie di provini che spero un giorno di pubblicare ma dovrei riservarmi del tempo, però non è escluso che lo faccia. Il mio sogno segreto sarebbe quello di passare almeno un mese a fare windsurf o snowboard senza dover lavorare.
Quando è stata l’ultima volta che hai fatto una vacanza?
Per fortuna quest’estate in Sardegna abbiamo avuto un po’ di date concentrate lì, siamo riusciti a fare venti giorni per le serate e regolarmente tornavo nel nord dell’isola dove c’è un posto storico per i windsurfers, lì è il massimo. Diciamo l’estate non è andata male. Fare Casa Bertallot è molto impegnativo. Ma è bello perché si è radunata una famiglia qui intorno. Ed è una scommessa da giocare fino in fondo. Vediamo come va la radio online. Da una decina di giorni abbiamo messo online una radio 24 ore su 24. Tutti i miei dischi li sto gettando li dentro. Quello è veramente aprire la casa e fare entrare tutti. Far sì che tutta la roba che rimarrebbe accumulata inerte a casa mia riprenda vita e ritorni a comunicare agli ascoltatori. Stiamo viaggiando verso i trentamila ascoltatori in dieci giorni. Abbiamo fatto la televisione su Sky Arte e ci ha dato grandi soddisfazioni. Ci sono degli ottimi elementi per rimanere legati al progetto. Mi manca un po’ il contatto con la natura che è l’aspetto opposto a tutto ciò di cui abbiamo parlato fino adesso nell’intervista. È un elemento che riequilibra. E questo non significa necessariamente andare a scalare le montagne. Significa fondamentalmente liberarsi di tutta questa intossicazione ermeneutica o di questa entropia di dischi ed accorgersi che c’è un mondo intorno che ha dei tesori da cogliere semplicemente se ci si apre alla sensibilità di poterli cogliere.