Partiamo dalla fine.
Diciamolo subito senza girarci troppo intorno: siamo di fronte ad un album enorme.
La sensazione è quella di guardare un megalite e di pensare che semmai dovesse cadere, farebbe un tonfo impressionante. Hai presente quelle volte in cui ci si trova ad ammirare strutture maestose, palazzi imponenti, navi oceaniche, impalcature di architetture in costruzione? Pensi alla caduta, al crollo, al rumore prodotto dalla loro improvvisa distruzione. E’ una fantasia, certo, e in quanto tale dovrebbe rimanere nella tua testa.
Solo che questa volta il megalite cade. E il rumore che fa è esattamente il suono del primo volume di Endkadenz.
BAM.
Inizia così Ho una fissa, primo pezzo dell’album nuovo dei Verdena.
Una bella sberla in faccia. Una papina ben assestata, l’ennesima, a chi gufava ai tre di Bergamo un passo falso. Perché i Verdena fanno ciò che vogliono, quando vogliono e soprattutto come vogliono. E lo fanno da Dio, rivendicando una libertà assoluta che è bella da vedere (in quanto genuina, pura, limpida) ma soprattutto da sentire. Libertà di fare un disco che è slancio e allo stesso tempo riflessione; scatto in avanti ma anche mantenimento della posizione. Un continuo movimento di avanti e indietro, proprio come diceva Hegel: fuori di sé/dentro di sé, un’espressione che, sorridendo, starebbe molto bene nei testi di Alberto Ferrari.
Parlando concretamente, questo disco porta con sé quel bagaglio di canzoni devastanti e granitiche contenute nei dischi Il Suicidio dei Samurai e Requiem e quel respiro più (sì, stiamo per dirlo!) pop di Wow, tutto ciò in una forma compositiva costantemente in evoluzione, intelligente e mai inquadrata che da sempre contraddistingue il gruppo bergamasco. Raramente troviamo soluzioni melodiche o strutture ritmiche scontate: tutto funziona perché funzionale alla musica. Anche i testi, spesso oggetto di polemiche (che, in tutta onestà, lasciano il tempo che trovano), sono efficaci alla trasmissione musicale – perché di trasmissione si tratta, in quanto espressione – e utilizzati come puro mezzo, uno strumento, appunto.
E poi ci sono le canzoni. La potentissima cinquina iniziale sarebbe capace di stendere un colosso: lo stoner di Ho una fissa, che suona già classico; Puzzle, ballad psichedelica alla Losing my Religion; il rock surf/bubblegum di Un po’ esageri; l’elettronica schizzata alla The Age of Adz di Sci desertico, pezzo con un tiro clamoroso e insospettabilmente funk; e poi Nevischio, con quell’arpeggio che più country non si può e un finale strepitoso (che speriamo venga cantato ad libitum in versione live).
Si prosegue con Rilievo, pesante come un macigno; poi Diluvio che, per chi scrive, è una vera poesia d’amore, una delle più alte vette verdeniane a livello compositivo, a continuare idealmente quel discorso iniziato in Lei disse; e ancora Derek, abrasiva come carta vetrata sulle guance.
Parlavamo prima di libertà. I cinque pezzi (non facili, a dispetto di quanto recitava il famoso film) finali sono quanto di più free abbiano mai fatti i nostri. A partire dal cantato (Alberto non ha mai osato così tanto): Vivere di conseguenza, uno dei pezzi a suonare più “italiano” nonostante l’eccentricità intrinseca, richiama una certa epicità prog; Alieni fra di noi è come un atterraggio al ralenti di una navicella spaziale; Contro la ragione è la The Logical Song dei Verdena con un piano e una batteria francamente irresistibili alla Love is in the Air (ascoltare per credere!); gran finale con Inno del perdersi, una ballad stoner implacabile che pialla ogni superficie, e Funeralus, pezzo dalla bellezza struggente e dalla natura volutamente non risolutiva, perfetto per darci l’arrivederci all’estate, periodo in cui è previsto il secondo volume di Endkadenz.
Come concludere? (ma dobbiamo proprio farlo?)
Con una citazione che porto nel cuore, usata molti anni fa in una recensione di un loro disco: “Ascoltate queste canzoni tra 10 anni: saranno sempre bellissime”.