Omonia lawana mama kenirawo e Bara suayo
Inizia con un elogio preghiera a Eleggua, il dio bambino e guerriero dell’inizio e della fine di ogni cosa, che nella antica religione Orisha radicata nella cultura yoruba indica il principio e la fine di ogni cosa.
Ecco il viaggio mistico, funebre, amoroso, intimo e familiare di due gemelle dalla voce angelica poco più che adolescenti, nuovo crack del 2015 sotto il nome Ibeyi. Un viaggio avventuroso per l’anima che parte dal cuore dell’Africa per toccare il ritmo e la fede del popolo Yoruba. Passa per Cuba, dove la cultura yoruba è giunta con gli schiavi moltissimi anni fa e i territori caraibici a rafforzare un legame territoriale nelle radici del padre. Infine trova suoni e modernità nella terra francese, in quella Parigi multietnica e colorata che non può essere, non deve essere e non sarà mai solo haine, banlieue esplosive e Charlie Hebdo.
Musicalmente nessuna grossa innovazione se non un soul d’ispirazione caraibica che rimbalza dai Neville Brothers e New Orleans ai suoni poveri cubani e afro, alla limpidezza vocale già sentita con Laura M’vula, senza disdegnare potenti ondate di percussioni e basso, in puro minimalismo elettronico e a creare un intercalare di musicalità quasi liturgica. Il tutto è sovrastato da un pianoforte che si rivela sempre saggio nel dar peso alle parole mai così ben usate e toccanti, interpretate con un candore, una pulizia e una forza raramente sentita in giro negli ultimi anni.
L’esperienza è venata di forte misticismo perché le Ibeyi consacrano e offrono alle divinità tanti elementi ricchi di simboli: la spiritualità, la voglia di ripartire, l’elaborazione del dolore di chi ha vissuto sulla propria pelle la tragedia di un lutto accaduto prematuramente (la perdita di una sorella e del proprio padre) e le loro invocazioni d’amore.
Ecco quindi che le preghiere si affidano subito a Oya, dea del vento cui si chiede la forza per ripartire per riguardare la luce cercando di mettere del bianco limpido dove regna il nero. Un nero funebre che accompagna l’ultimo viaggio del padre, salutato e venerato in un ultimo struggente dialogo in Behind the curtain:
Where are you now? My man, my father, far from my life for good or in your ivory tower […] have you gone behind the curtain be I so far, or very near, my baby just have no fear leaving me uncertain I am here.
…il tutto su un tappeto di pianoforte lento che suona come un commiato, una preghiera e un canto d’accoglienza al cielo, mentre le congas entrano morbide sul finale.
Questo l’inizio della necessaria elaborazione del dolore, percepita in maniera ancora più sentita quando le due sorelle si chiedono quanto piangerà la madre per la perdita dell’uomo amato in Mama Says “the man is gone and mama says she can’t live without him/ the man is gone and mama says there is no life without him”, provando a interpretarne il dolore con occhi di quelle che erano due bambine.
L’assenza della colonna portante maschile diventa ricerca costante di una figura fisicamente presente ed è in fondo il manifesto che emerge con forza lungo tutto l’album e che inquadra la figura dell’uomo come simbolo di sostegno cui si può e si deve far ciecamente riferimento e di cui si ha bisogno come linfa vitale per ripartire, lasciandosi alle spalle pur senza dimenticare i fantasmi del passato teorizzati in Ghost.
Il viaggio qui diventa di speranza e futuro e si tuffa nell’unica medicina utile per un dolore così enorme: l’amore. Il cuore si fa elemento di cura per la rinascita e si chiede quindi, in quella che rimane quasi preghiera, fedeltà e fiducia incondizionata (Faithful); ci si purifica l’esistenza, l’anima e il sentimento nel fiume (River) che tutto lava e cancella; infine si ascende per incontrare le proprie divinità in Stranger/Lover, un esempio perfetto, in forma scritta, di come dovrebbero essere affrontate le forti incomprensioni, i momenti bui e l’attesa della quiete che arriva sempre dopo la tempesta. Non solo: ci insegna a far pace, mettendo da parte il rancore e stringendosi in un abbraccio fatto di futuro, di voglia di domani, di promesse da mantenere.
No one is wrong or right/I want to end our fight /Let’s dance our way into the light /We never saw inside /Love is not what has failed /Why can’t we both be saved?
Sono bravissime queste due gemelle col viso gentile, arrivate come un fulmine a ciel sereno in un panorama musicale femminile, troppo preso dall’ auto compiacimento, da una forza solo esteriore, dai lustrini e dalla moda a raccontarci la fragilità di avere vent’anni, la difficoltà di affrontare tutti i giorni la vita dopo brutte cadute, spesso nemmeno causate da volontà propria. L’insicurezza nei passi dell’amore, timida quando è scoperta, forte quando si ha la forza di volerla dominare, con l’aiuto di uno sguardo al cielo, al tramonto, ai propri angeli, siano queste divinità orisha o persone care che ormai ci guardano dall’alto, senza trovare una falsa retorica perché infine degli angeli, di un sostegno esterno e non visibile abbiamo bisogno tutti.
Ora, giocarsi aoty a marzo può risultare sfrontato e abbastanza prematuro, ma se per una volta un disco più che farci ballare, riflettere, o arrabbiare ci afferra per mano e ci accompagna a mani unite in un percorso dove il dolore (come insegna Oya) stravolge l’anima come fa il contadino con la terra prima della semina, vale la pena ricordarselo e tenerlo bene impresso nella mente.