Cinque anni di distanza tra un album e l’altro possono essere un’enormità in un panorama discografico sempre più frenetico, ingordo e intasato. La grandezza dell’artista sta nel gestire la tensione, nel non preoccuparsi di mantenersi all’altezza di quanto fatto, nell’alimentare l’attesa e, soprattutto, nel ripagarla. In tal senso, la missione di Iosonouncane aka Jacopo Incani può dirsi pienamente riuscita.
“La Macarena su Roma” è stato un esordio a dir poco sensazionale: un disco crudo, schizoide, “politico”, immenso nella sua eterogeneità stilistica. Bissarlo poteva rivelarsi impresa difficile, ma Incani non s’è preoccupato di porsi nel solco di tale album, né tantomeno di imitarsi o di ripetersi.
“DIE” si rivela una nuova grande opera, estremamente moderna, capace di attingere a qualsivoglia influenza artistica e al contempo di suonare personale, originale e innovativa. Iosonouncane abbandona la dimensione urbana che aveva permeato il suo debutto e riscopre la terra natìa, una bucolica Sardegna che si rivela inedito locus amoenus e musa ispiratrice. Ciò si manifesta sin dal titolo stesso del disco: “DIE” infatti in sardo significa “giorno”, parola estremamente ricorrente nell’unico componimento lirico che si dipana lungo le sei tracce.
Tale scelta terminologica offre una splendida contrapposizione semantica con l’omografo verbo inglese che si traduce in “morire”, rivelando quel gioco di chiaroscuri e di ambivalenze che si palesa in tutta la sua grandezza attraverso i solchi del concept album. Brani lunghi – i dieci minuti di “Buio” – si contrappongono ad altri di durata inferiore come l’eterea “Paesaggio”, atmosfere oscure disegnate da claustrofobici tamburi marziali nell’iniziale “Tanca” si aprono nelle madeleines balneari e inaspettate della simil-ballad “Stormi”, uno dei più bei brani mai scritti dalla penna di Incani.
Il disco vive e si nutre con foga di questi momenti schizofrenicamente variegati: i sei pezzi si compenetrano in un mosaico perfettamente intarsiato ma allo stesso tempo hanno una propria originalissima unicità, estrinsecata in titoli composti da una sola parola. Lo sterminato campionario di soluzioni, strumenti e collaboratori rende la nuova creazione di Iosonouncane ricca e sfaccettata: beat elettronici convivono in inquietante armonia con chitarre acustiche, voci cariche di echi si alternano al canto a tenore della tradizione sarda o a cori femminili.
Volendo contrapporre “DIE” all’esordio che l’ha preceduto, diremmo che è la Natura che conquista l’Uomo, lo rapisce e lo ridimensiona. Un ardito e frustrato essere umano che si riscopre finito, una terra inquietante e terribilmente bella che rivendica lo scettro a sé spettante.
Pop sui generis, canzone d’autore, elettronica, ambient, noise sono tutti generi che ben possono descrivere alcuni aspetti della musica di Iosonouncane, ma che altresì si rivelano assolutamente incapaci di inquadrarla a pieno. “DIE” è un disco monumentale da ascoltare infinite volte per svelarne anche il più profondo e celato dei segreti e per restare ancora una volta scioccati dalla meraviglia artistica creata dal perfezionista Incani in questi anni. Per quanto di questi tempi sia un riferimento fin troppo citato e abusato, il secondo album di Iosonouncane è una sorta di “Anima Latina” di Battisti portato ai giorni nostri: una creatura frastagliata e ricca, contemporanea nelle soluzioni ma a suo modo senza tempo.
Spesso si gioca a pensare a quali tra i dischi pubblicati in questi anni saranno ricordati e citati tra dieci o vent’anni: io credo fermamente che “DIE” figurerà tra questi. Inaudito.